NEUROSIS - The Eye Of Every Storm

Il viaggio Finisce : Piangere di Gioia, Accarezzando L’Occhio del Ciclone

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  1. Neurosjb
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    Neurosis - The Eye Of Every Storm (2004)
    (Relapse-Neurot Recordings)


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    Tracklist :
    1. "Burn" – 7:07
    2. "No River To Take Me Home" – 8:43
    3. "The Eye Of Every Storm" – 11:57
    4. "Left To Wander" – 8:11
    5. "Shelter" – 5:18
    6. "A Season In The Sky" – 9:50
    7. "Bridges" – 11:36
    8. "I Can See You" – 6:10

    Line-Up :
    Scott Kelly - guitars, vocals, percussions
    Steve Von Till - guitars, vocals, percussions
    Dave Edwardson - bass guitar, synthesizer, vocals
    Noah Landis - organ, piano, samplers
    Jason Roeder - drums
    Josh Graham - visuals



    “Questo mondo di fredda pietra non dà niente in cambio
    A coloro che dormino mentre senza conforto bruciano
    Ci sono pochi guidata alle fiamme
    I più son contenti di annegare nel risveglio dei sogni.”
    Nell’occhio del ciclone che severo ci avvolge, rimaniamo in attesa.
    Un esodo durato otto album (ufficiali, targati Neurosis), e vent’anni di iconoclasta devozione alla musica. Per arrivare a scegliere il male minore, come ormai la nostra società è abituata.
    Pur di non implodere per la gravità che comporta l’elevarsi spiritualmente, per guardare la realtà dall’alto, viene scelta una nuova via, cominciata con Times Of Grace : tornare alla terra che ha visto trascorrere i secondi, i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni delle nostre flebili vite, e sancire l’armonia con essa, madre amorevole e sincera che non giudica mai, il cui desiderio è solo quello di ascoltarci e amarci, sempre.
    Poggiare i piedi laddove è presente ogni soffio di creazione, sia essa divina o no, per avere una visione spirale e totale, a 360^, per comprendere definitivamente l’essenza delle piccole cose.
    Ancora una volta le due anime , le due facce della medaglia che creano questo immenso e variopinto riquadro sonoro, opera le cui sfumature oscillano sempre tra il grigio e lo scarlatto : una è quella del maestro, il capitano, il guru Steve Albini, che con band quali Shellac, Big Black e Rapeman ha segnato la via per concepire una nuova maniera di plasmare la musica e renderla espressione dell’animo, nonostante le mille sfaccettaure, spesso fredde e matematicamente incastrate fra loro.
    Dall’altra parte le mani sapienti di una band che tutta, muovendosi in gruppo, ha seguito la strada indicata da Steve, e, con diligenza e pazienza, ha saputo divenire allievo più importante, e ora comprende di avere definitivamente le carte in regola per superare il proprio maestro.
    Un percorso compiuto a capo chino, in maniera umile, senza mai alzare la voce, se non per sfogare in solitudine la propria rabbia nascosta, per non scaricare la propria fragilità su di un mondo che non merita neanche di lenire il nostro dolore, al di fuori di poche e fondamentali persone, che amiamo.
    “Negli oceani io posso trovarti, io posso vederti, io posso vederti”.
    Il sound?Beh muta ancora, come da tradizione per la band, come un serpente che necessita di cambiare pelle ogni stagione, per tornare più forte e che mai e poter riaffermare la sua supremazia.
    Le architetture sonore, a dispetto di una sempreverde ricercatezza nelle sovrapposizioni timbriche, come creato da Souls At Zero in poi, sono ora più scarne, scevre anche di quella pienezza orchestrale che ha fatto capolino nel precedente lavoro. Sottraggono, scremano gli strati di suono per sviscerarne l'essenza. Momenti di crescita verso alti picchi d'intensità si liquefanno in un batter di ciglia per dar spazio ad amniotiche aree di decompressione, come se un limbo ci catturasse per assorbirci al suo interno. A volte lo strato di suono è così sottile nella sua pienezza, da parire etereo.
    Lo sguardo si volge intorno, verso paeasaggi bruciati che ardono l’anima, un bagliore fortissimo che anticipa la deolante catastrofe nucleare incorniciata da Burn. Non manca l’intro presente in Times Of Grace e A Sun That Never Sets, ma viene integrate all’interno di un’unica song : una gusto agrodolce dove danzano serene le vocals desolate di Steve Von Till e le chitarre appena accennate di Scott, mentre Jason guida la fila con precisione chirurgica, andando a sezionare il caos sprigionato all’improvviso dai riff dei due leader, e rendendolo inoffensivo, riducendolo unicamante a un’ eco lontana, sovrastata da keys di ambient puro che solo il migliore Burzum meglio poteva giostrare. Ma una quiete perenne è difficile da mantenere, ed ecco infatti tornare la violenza meditata che tanto è vicina alle ire dei Breach, dove chitarre taglienti come rasoi squarciano l’aria.
    Una song sussurrata all’orecchio che narra di solitudine e speranza lontana, pacato amore per chi è lontano, lottare insieme a qualcuno in un mondo ostile, dove imperversano gli eremiti.


    “Feel the freeze burn skin
    salt your open wounds
    a burning desire clears your eyes
    a willful air fills your lungs”



    Comprendere che tutte le strade sono in salita e che esiste No River To Take Me Home.
    Lo sciabordio lontano delle onde che mosse dalla corrente portano lontano e cercando di dividere, armonizzazioni buie si muovono sopra un plateau di riff dilatati e compressi, dal sapore quasi drone, mentre in superficie l’esperimento ripetuto nella precedente opera, viene ripetuto, nuovamente in maniera eccezionale : un Von Till che dona la sua voce calda e pulita a muri sonori troppo spessi da sembrare reali. Ma non si lamenta solamente, è capace ancora di digrignare i denti e inveire contro un destino così beffardo, e niente si può fare, se non urlare, in maniera sommessa, su arpeggi che riprendono i (da loro stessi influenzati) Red Sparowes, Tone, Grails. E nel silenzio più profondo la song va a spegnersi, la notte e sopraggiunta e tra incubi si muove inquieta,

    “Let them come
    Be my eyes, lead me on
    Lift me out, tear me up, spark to fire
    Whatever comes through me I will be
    I had three signs thrown down on me
    Fate frees my heart
    Whatever comes through me I will be”



    tormentando anche le anime dei puri, ma per loro, il giorno arriva sempre, dopo ogni tenebra.
    Ed ecco infatti i raggi di luce, ma i così belli e accoglienti che chiudono in maniera definitiva un componimento che splende di luce propria e da solo vale il disco.
    Giunge l’alba di un nuovo giorno e si percepisce che l’aria è carica di elettricità, inquietudine e paura abbracciano l’animo, sbigottito dalla presenza contemporanea del sole e delle nuvole circostanti, come è giusto che sia ne The Eye Of Every Storm. Una tranquillità beffarda che non culmina in niente, ma riesce a mantenere una tensione altissima, visto il pensiero passato di un esplosione imminente, capace di logorare dentro, e il disagio è manifestato dalle voci malinconiche di Kelly, Von Till ed Edwardson, che solcano il limite sottile tra realtà e sogno con sussurrare chitarre, mentre Noah disegna affreschi elettronici eterei e quasi fischiati in un primo momento, per poi dettare con la voce pacata di Steve che pare accarezzata da soffici venti di fine estate : il marchio di campionamenti e delle keys è ormai padrone del sound Neurosis, e la song ne è la prova.
    Goccie di pioggia che arrivano dalle nubi circostanti bagnano il nostro volto di pietra, troviamo conforto, come è espresso dalla voce trattenuta di Scott, che vede le anime di chi è stato meno fortunato, alzarsi, librare nell’aria come pilotate e sorvolare silenti, l’occhio del ciclone.

    “So I crawl through the hailstones
    My eyes fixed on my return (oath breaker sinks low)
    Time brings them all home to the eye of every storm”



    Dopo dodici minuti di catarsi, vediamo la tempesta allontanarsi lentamente con Left To Wander, ma con una colpo di cosa mostra ancora tutta la sua forza, obbligatorio scatto d’orgoglio, condotto da un Reoder devastante e da un Landis che riproduce fedelmente il suono di tuoni e vento. Ma la coda del ciclone è ormai lontana, e ci permette di vedere meglio la distruzione circostante. Arpeggi distorti che si uniscono da soli, in un crescendo che ricorda il mood dei Soundgarden di Superunkown, e vanno a spegnersi nuovamente in arpeggi che prendono linfa dal suono di band come i Tortoise.
    La speranza è più consistente ora, quasi mossa dalla vista di superstiti che escono da anfratti di macerie, e strabuzzano gli occhi a un sole ancora scuro e maligno, figlio di un mondo nuovo.
    E arriva Shelter a riempire il cuore di educata speranza, sottile e melliflua, che incide poco a poco, per non illuderci, ancora chitarre psichedeliche e appena accennate, sorrette da piccoli campionamenti che ne concludono il suono, rendendo il tutto perfetto e uniforme, un finale imbarazzante per semplicità e bellezza, manifesto di una band che è grande con poco.
    Ancora non si è consapevoli della propria salvezza, e la mente torna a quei momenti drammatici, quando la tempesta era vicina e minacciava ogni cosa, immagini sfocate di morte e distruzione, narrate da un Von Till che con voce strozzata e capo tra le mani scava nella propria mente, non più nella nostra, mentre l’atmosfera circostante è quieta come non mai, una sorta di world musica riletta in chiave oscura e malinconica. Gli ingredienti son gli stessi : arpeggi di chitarra, basso profondo, keys e campionamenti latenti, ma ogni volta, ogni volta che la band ne fa uso, lo fa con maestria e passione, senza abbandonarsi mai a ripetizioni, ma costruendo arabeschi sempre nuovi con gli stessi mezzi di sempre, come solo le stirpi superiori sanno fare. Anche le consuete deflagrazioni della band cambiano di volta in volta, a volte anche all’interno della song, piccoli particolari che fanno invece tutta la differenza di questo mondo. Nuovamente le immagini delle anime che salgono al cielo invadono la mente, in un ricordo che dura effettivamente nove minuti e più, ma che dentro, rimane per sempre, quasi a scongiurare una perenne Season In The Sky.


    ”The leftovers were playing with my memories of love
    I screamed at my god and he let me go
    I drifted silently to the desert and began to pray
    I came to a pile of ashes and sifted through it looking for teeth
    A snake spoke through me again
    But I could not heal their wounds”



    Si ritorna al presente, ma con uno sguardo rivolto al passato soprattutto a livello concettuale, con Bridges. Parlai di ponti costruiti e ponti crollati in The Word As Law e Souls At Zero, ed ecco che si presentano nuovamente, in un rimprovero dalle tinte delicate, preso in braccio da tocchi di piano di classe cristallina, mentre in lontana percussioni ossessive ma poco rumorose fanno da contorno a tappeti spaziali dal sapore Floydiano. Un vento leggero spazza i nostri pensieri e l’ordine torna nella mente, e di chi ci sta di fronte. Ormai è inutile tornare indietro, ogni legame è stato reciso, ogni ponte abbattuto, ed è inutile riparare quelli che portano a luoghi di desolazione e solitudine, necessario è invece crearne di nuovi verso i luoghi dove ancora risiede la speranza. Per chi ci sta di fronte è difficile da accettare, e ci guarda in maniera assente : a testimone di ciò piccoli rintocchi e visioni di piano ci scrutano, e allora la pazienza viene meno, quando subentra il nervosismo, messo in scena da un muro di riff liquidi, senza alcun intervento ritmico, che si presenta invece nel finale, come uno schiaffo in pieno volto, sofferto, ma necessario, per spalancare la vista di chi non vuole vedere.


    “You'll drag your house down, when truth comes calling at your door
    Stare through the misty wonder, the life of men's souls
    Your cup is empty and you are running out of time
    Caving your head in, don't dare to dream it will implode”


    Un sorriso abbozzato e un arcobaleno all’orizzonte suggellano il momento.
    Ed ecco sopraggiungere l’ abbraccio tanto sospirato di I Can See You. Una dolce poesia di blues acido e minimale, dove keys lontanissime abbozzano un nero che non tornerà , ma sempre da temere e conoscere.
    E Scott che canta la sua sommessa felicità, rivolta verso un amore che è simbolo di vita e rinascita.


    “In the oceans we can find you
    For the sun we praise your name
    In the dirt we pray for god to bring you back again
    I can see you, I can see you
    In the void the stones are turning and turning and turning”


    Ed è così che si chiude (per ora) la saga dei Neurosis, sospirando amore e speranza, lontani dalla violenza di un esordio come Pain Of Mind, che avrebbe portato verso una strada senza uscita, memori dei primi pensieri filosofici nati in The Word As Law e facendo del rapporto tra Io e Collettivo un manifesto come Souls At Zero, qui ripreso in un quadro più ampio e post-apocalittico, fedeli alle radici di una terra ancora primitiva come ben esemplificato su Enemy Of The Sun, e ritornano a essa con la magnificenza di Times Of Grace e A Sun That Never Sets, eguagliando la capacità emotiva un capolavoro assoluto come Through Silver In Blood.
    A volte a mente calda, vi dirò care amiche e amici, che quello che scrivo sembrano tante (mi scuso per il termine) cazzate senza senso : visioni di anime, morti, animo e cosmo.
    Ma dopo un po’ a mente freschissima, mi trovo a riascoltare questi capolavori e le sensazioni sono le medesime, e dovessi descrivere le emozioni che trasmettono, non sarebbero certo le medesime, ma non farei neanche un passo indietro su quello detto, ma anzi, andrei ancora più in profondità, ampliando ancora il discorso, fino a perdermi completamente.
    Questo perché non solo i Neurosis, ma la musica tutta, è capace di emozionare e aprire la mente, mettendo a nudo la nostra vera essenza, e questo non è solamente una fredda opera di apprezzamento alla band, ma soprattutto una testimonianza di come la musica sia passione, capace di trascender ogni cosa, e io, la dedico a tutti voi.
    Sperando di non avervi annoiato, e in tal caso chiedendo umilmente scusa, dopo due settimane che ascolto solo Neurosis, mi congedo, ascoltando qualcosa di tranquillo (questa l ho presa da DaveJ), ma non disperate, oppure fatelo se vi ho schifato, perché tornerò presto a narrare le ultime gesta dei tristoni di Oakland, che hanno cambiato il mio modo di intendere la musica.
    Stay tuned, vostro Neurosjb
     
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  2. DaveJWarner
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    CITAZIONE (Neurosjb @ 11/3/2007, 18:29)
    A volte lo strato di suono è così sottile nella sua pienezza, da parire etereo.

    riassumerei il disco in questa frase.
    "the eye" è il disco dei neurosis che può piacere a tutti. è distruttivo, tranquillo, metafisico e lacerante...bella simo! questa rece ti porta dritto dritto a colorarti il nick di verde :corna:
     
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  3. Modicarcass Of Death™
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    Questo è stato il mio primo Neurosis. Me lo fece ascoltare il losco figuro che ha postato prima di me, qui sopra. Ricordo ancora il digipack con questo occhio del ciclone che provocò in me una curiosità......stranissima.

    Venne l'ascolto, la comprensione e la metabolizzazione di questo disco, e le seguenti parole di Neuros

    CITAZIONE
    Le architetture sonore, a dispetto di una sempreverde ricercatezza nelle sovrapposizioni timbriche sono ora più scarne, scevre anche di quella pienezza orchestrale che ha fatto capolino nel precedente lavoro. Sottraggono, scremano gli strati di suono per sviscerarne l'essenza.
    Momenti di crescita verso alti picchi d'intensità si liquefanno in un batter di ciglia per dar spazio ad amniotiche aree di decompressione, come se un limbo ci catturasse per assorbirci al suo interno. A volte lo strato di suono è così sottile nella sua pienezza, da parire etereo.

    sono la perfetta sintesi del disco.
    Atmosfere davvero che catturano l'ascoltatore, per impossessarsene e non lasciarlo andare più via. Che grande coinvolgimento mi procurò quell'ascolto..........grazie ad esso iniziai ad apprezzare il percorso dei Neurosis, e ad amarlo in tutta la sua lunga scia.......
     
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  4. DaveJWarner
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    losco figuro è un complimento.
     
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  5. DaveJWarner
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    oggi riguardavo i miei dischi, e tra i digipack ho trovato "The Eye" e mi son detto: perchè non far "rintronare" di nuovo queste mura con i pezzi che mi hanno iniziato a questa band? Ma come si fa a riassumere in un riff, tanta catarsi e paura? I primi minuti di "No River" sono qualcosa di unico, poi il continuo dilatarsi delle chitarre nelle tastiere, che sembrano realmente gonfiate di malessere esistenziale, portano la canzone a massimi livelli..lo scioglimento della trama attraverso arpeggi timidi ma minacciosi...grandi, grandi..

    don't let it steal your eyes!!! poi è l'apoteosi della goduria
     
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  6. Neurosjb
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    CITAZIONE (.Davide @ 25/10/2007, 15:00)
    oggi riguardavo i miei dischi, e tra i digipack ho trovato "The Eye" e mi son detto: perchè non far "rintronare" di nuovo queste mura con i pezzi che mi hanno iniziato a questa band?
    don't let it steal your eyes!!! poi è l'apoteosi della goduria

    E The Eye è anche il loro album più pacato, più che rintronare le mura si nascondo direttamente in attesa di Given, con quello sì che rintronano :asd:
     
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  7. DaveJWarner
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    più pacato? :D dipende..
     
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  8. Neurosjb
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    No beh, oggettivamente TEOES è il loro album più leggero, il suono delle chitarre è molto più leggero, le parti ambientali lo fanno da padrone, basti sentire la title-track, dove si muovono al fianco del muro elettrico, non in secondo piano, oppure in Shelter, A Season In The Sky, la finale I See You. Ovviamente son sempre i Neurosis, ma questo rimane sicuramente il capitolo più dilatato della loro ventennale carriera, e aggiungo anche con qualche rimpianto, perchè avrei preferito che proseguissero questa scia, piuttosto che tornare su lidi più pesanti con Given To The Rising.
     
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  9. DaveJWarner
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    ora si :D
     
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8 replies since 11/3/2007, 18:29   330 views
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