ORANGE GOBLIN - Thieving from the House of God

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  1. JØHN
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    Orange Goblin - "Thieving from the House of God"

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    Anno: 2004

    Etichetta: Rise Above

    Tracklist:
    1. Some You Win, Some You Lose
    2. One Room, One Axe, One Outcome
    3. Hard Luck
    4. Black Egg
    5. You're Not the One (Who Can Save Rock N' Roll)
    6. If It Ain't Broke, Break It
    7. Lazy Mary
    8. Round Up the Horses
    9. Tosh Lines
    10. Just Got Paid
    11. Crown of Locusts



    Dopo due album in cui sembra di ascoltare una band ormai alla frutta, arriva un disco per certi versi molto diverso, che è la continuazione del cammino (un po’ a tentoni e non coerente) intrapreso dalla band, ma anche un bel salto di qualità.
    L’organico si riduce, ed alla chitarra ora c’è solo Joe Haore, e se sotto un primo profilo , ovviamente, ne deriva anche una semplificazione del suono, sotto un altro profilo è anche vero che un suono più spicciolo e diretto permette alla band di uscire dalle contraddizioni in cui si era arenata, e finalmente quel processo di incupimento ed irrobustimento del suono, arriva a compimento e nella sua forma perfetta, sia sotto l’aspetto stilistico sia sotto l’aspetto compositivo, perché è pur vero che a pagare il prezzo di questa inversione di rotta è specialmente la profondità e la rotondità di quel suono, in passato così cangiante e ricco di particolari, ma è anche vero che solo in questo modo la band guadagna tutta un’altra carica, tutta un’altra propulsione, con una ricetta stoner molto acerba e prevalentemente southern con delle ritmiche che non lasciano ne respiro ne tregua alcuna, passando da pezzi brevissimi ed esplosivi a un solo pezzo lungo intitolato “Crown Of Locusts” e traboccante di malvagità dal titolo alla colpo di coda sludge che divora lo stomaco in 9 sfinenti minuti di suoni distorti e al limite. Non è quello che ti aspetti da un disco degli Orange Goblin, non è un album di facile assimilazione, non perché sia ostico, ma perché ci vuole molto prima di disfarsi delle aspettative legate all’acido passato della band e della delusione legata agli ultimi 2 album. quando parte “Some You Win, Some You Lose” è come una essere scaraventati in un pub di sbronzi, per quanto è inebriante e coinvolgente il pezzo, verte tutto sul riff, la chitarra è una sola ma è tagliente più del solito, un pezzo cinico e aspro, duro al punto giusto,per fare quello che “Coup De Grace” non era riuscito a fare: concentrare e rinsecchire il suono degli OG ulteriormente rispetto a “Time Travelling Blues”, che rispetto all’esordio già riduceva le fughe oniriche e i viaggi spaziali. “One Room, One Axe, One Room” è interessantissima, perché solo con la sua intro, che occupa una buona parte della canzone sbaraglia tutti i pezzetti psichedelici dei due album precedenti: tra l’eco si fa strada un contorsionismo strumentale angusto, affascinante, lento, che gradualmente fa spazio ad uno dei pezzi più tirati e brutali del disco, ossia una cavalcata a la “Coup De Grace”, più aggressiva, più focalizzata ed essenziale di qualsiasi cosa presente nell’album precedente, ed anche la chitarra solista sembra più amalgamata alla canzone, e non deve più ritagliarsi spazi forzati, ma prende forma spontaneamente ed abbellisce con essenzialità un suono finalmente maturo, che piace e cresce sempre più man mano che passano gli ascolti.
    Hard Luck” è il classico pezzo che è facile sottovalutare, a causa della sua brevitas, ma mai come ora gli OG riescono a condensare il massimo della loro potenza nel minimo della durata, poco più di due minuti di rock sudista allo stato brado senza fronzoli, con una chitarra solista a dir poco vorticosa che avvolge nelle sue spire maligne tutto il brano, e la batteria di Turner che viene percossa a sangue, tritata, consumata.
    Black Egg” è un capolavoro, tra i migliori quattro o cinque pezzi degli OG, tutta giocata sul duetto con Sarah Shanatan, che dà quel tocco soul al pezzo, naturalmente oscuro e sudato come gli altri, anche esso con i suoi solismi al fulmicotone, anche esso strutturato meravigliosamente, ma molto meglio degli altri, un episodio unico nella discografia della band britannica
    If Aint Broke, Break It” è una palestra per i muscoli da bluesmen degli OG e per le ugole cartavetrate e catramose di Ben Ward e dei suoi amici guest che sbraitano e digrignano i denti come cani rabbiosi. Un grande pezzo stoner in un album stoner tra i più tirati e neri di sempre, dove la velocità (“Lazy Mary”, “Tosh Lines” e “I’m Not The One”) non è tutto, ma fa tanto, quando è capace di alternarsi con momenti più ragionati e particolari, come la mannaia molleggiata “Round Up The Horses”, lenta e soffocante, uno degli episodi più originali del disco, non sembra trovare mai pace, come una notte insonne in cui non si trova una posizione che concilia il sonno, infatti i ritmi schizzano e cambiano in modo repentino e rompono l’atmosfera placida e notturna in movimenti inaspettati e nevrotici.
    C’è poco da dire, un album ispirato, non perfetto sicuramente, e non paragonabile (almeno non tutto) ai primi due, ma pur sempre ispirato, e lo si capisce dai momenti in cui la band sperimenta una inedita cattiveria e pesantezza come nei momenti in cui va sul sicuro come quando ripropone “Just Got Paid” degli Zz Top, e nel farlo sfodera tutto il suo talento, tutta la sua grandezza, nonché la differenza che passa tra i puri e semplici revivalismi e la reinterpretazione fatta con le palle.


     
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  2. _Cippa_
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    Gran disco, trasuda southern rock, rock sudista tirato e echi blues
    la cover degli zztop è la ciliegina sulla torta, per me è meglio dell'originale :rullo: :rullo: :rullo:
     
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    Poffàre
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    sicuramente il mio preferito dopo i primi 2
    gran disco davvero
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2 replies since 26/10/2007, 10:03   271 views
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