KING CRIMSON - In The Wake Of Poseidon

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  1. John Hubert Cumberdale
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    King Crimson, In The Wake Of Poseidon



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    Label: Island, Atlantic, ora DGM

    Anno: 1970

    Tracklist:
    1. Peace (A Beginning)
    2. Pictures of a City
    3. Cadence and Cascade
    4. In the Wake of Poseidon
    5. Peace (A Theme)
    6. Cat Food
    7. The Devil's Triangle
    8. Peace (An End)


















    è il faccione che manca

    In the court of the Crimson King non solo fu una svolta per la storia della musica, ma pose anche una pietra miliare e tombale per la storia dei Robert Fripp e dei suoi King Crimson.
    Miliare, perchè tutto ciò che seguirà non potrà mai sottrarsi al paragone con l'epocale esordio, sia dentro sia fuori dalla carriera dei King Crimson.
    Tombale, perchè nessun album di Fripp avrà mai l'attenzione (del resto inaspettata) del loro esordio, per questo, passati di moda, i King Crimson finiranno con l'essere associati al loro esordio e basta, quasi che tutto il resto fosse una ripetizione di quanto già fatto, o come se quanto fatto nell'esordio fosse in qualche modo insuperabile.
    In the wake of Pseidon forse è l'unico album che prosegue (quasi simmetricamente) il primo, ripercorrendone la logica nei passaggi tra i brani (parte dei quali si deve supporre essere provenienti dalle stesse sessions precedenti), e riproponendone intenti e larga parte dei mezzi (del resto è naturale, visto che sono passati solo sette mesi dall'esordio). Anche il titolo è una assonanza con In The Court of the Crimson King. Tammo De Jongh si occupa della copertina, intitolata "I dodici archetipi", e sempre Peter Sinfield dei testi.
    Ma il nuovo disco non è solo "colpevole" di seguire a un capolavoro assoluto, ha anche la colpa di non essere dotato della più bella copertina di tutti i tempi, eretta a simbolo e opera d'arte, ma di una cover modesta, allegorica, non di grande effetto come la prima. Altre colpe, In the wake of Poseidon, non ne ha, anzi, ha il grande merito di riuscire a sintetizzare meglio la formula rock+classica+jazz del precedente, in una commistione a mio avviso più convincente, e di riuscire a smussare larga parte dei difetti ed ingenuità del primo album.


    il laboratorio

    Per l'ultima volta c'è Greg Lake alla voce, non più al basso, ora nelle mani di Peter Giles, fratello del batterista Micheal Giles; il flauto passa da Ian McDonald a Mel Collins, occupato anche al sax, d'ora in poi, un punto fermo come solista nei King Crimson, o da membro o da guest, fino al 1974; e Keith Tippet, fondamentale in questa fase, al piano, vocato al free jazz, tanto da dare spesso proprio questa impronta alla formula frippiana, sempre così aperta alle contaminazioni e alla sperimentazione, ma ora con Tippet molto più calata nel jazz.
    è vero che l'instabilità delle formazioni dei King Crimson conferma l'idea di un grande ego di Fripp, e di tutti gli altri, come accessori che vi ruotano attorno. Ma l'idea è sbagliata, come sbagliata sarebbe anche l'idea di un grande laboratorio a disposizione della sua chitarra e del suo mellotron. La band di Robert Fripp è qualcosa di vivo e che si sviluppa nell'esperienza che ciascuno riesce a trasporre nel collettivo.
    In questo senso si comprende come il disco sia più che altro un insieme di esperimenti e tantativi, direzioni musicali tutte percorribili, che vengono lasciate ai posteri, come traccie indelebili di una filosofia musicale, che è quella dei King Crimson di Robert Fripp. La fortuna e la sfortuna dei King Crimson l'ha sempre fatta la più o meno marcata sintonia tra i componenti del gruppo. Se fossero stati sempre e solo dei gregari o dei satelliti attorno al pianeta Fripp, il problema non si sarebbe mai nemmeno posto, è evidente invece che nel gruppo ci sono sempre state anime diverse, talvolta in conflitto, spesso con aspirazioni diverse, ma sempre coordinate nella disciplina che permette a una band fatta di artisti (e non di marionette), di concretizzare i propri desideri.
    I King Crimson del secondo album, desideravano un album più gotico e cattivo del primo, più spettacolare, nel quale la musica classica non sembra presa e calata per mezzo del mellotron, ma sapientemente mixata, anzi, geneticamente modificata fino a innestarne cose che prima d'allora nessuno si sarebbe mai aspettato di trovare. Capolavoro di questo grande esperimento è The Devil's Triangle, in un solo brano il punto di congiunzione tra il versante più classico e il più free del gruppo.


    dalla pace senza fine alla perdizione eterna

    Peace è il filo conduttore dell'album intero, divisa in tre parti separate, e poste rispettivamente all'introduzione, a metà e alla fine dell'album, semplicissime e delicate, tutte cantate e suonate senza far rumore, nella prima c'è solo Lake con l'accompagnamento acustico di Fripp, che nella seconda riprende il tema da solo, con arpeggi emozionanti, tutto molto semplice e struggente, per poi finire col brano conclusivo, che vede prima Lake da solo e poi di nuovo l'accompagnamento di un essenziale Fripp che riprende il tema e chiude il cerchio, riconsegnando all'ascoltatore il disegno di pace con cui il disco si era aperto, dopo tanto peregrinare in sperimentazioni lungo le cinque direzioni percorse. Cornice del tutto è la pace (io sono la storia / non finisco mai), grande motivo dell'album, e sfondo su cui si sviluppa la fantasia dei compagni di viaggio (suggestivo il richiamo agli elementi della natura oceano...fuoco...fiume...vento che si identificano nella pace, che potremo anche vedere come l'armonia universale). I tre frammenti della stessa canzone, messi insieme, fanno poco più di tre minuti, e tutta questa ricerca della semplicità serve come contrapposizione all'infinita elaborazione che invece si trova nei cinque brani, che staccano vistosamente da questo, e si sente proprio grazie allo sbalzo prepotente con cui dalla pace introdotta all'inizio si arriva alle angoscianti e tetre figure dell'alienazione post industriale di Pictures Of A City.
    Vitrei occhi intagliati come fessure in visi di ghiaccio intrappolati nel metallo, circondati da giochi di ruote di luci verdi, rosse, bianche, a neon. Questa la grottesca ambientazione fotografata da Sinfield nel suo testo che sembra parlare di un parco giochi dell'orrore. I suoi mostri sembrano clown, pagliaccetti cattivi, e il loro passo sembra sottolineato da un circo maligno di sax baritono di Mel Collins (ironia della sorte, i Circus erano la sua band d'origine), che domina l'introduzione del pezzo, intrecciandosi all'unisono degli strumenti, in tutta la sua estraneità nell'immaginario rock, e per questo ancora più forte e straniante. Giles rulla i tamburi come se stesse per lanciarsi un impavido trapezzista che non sa di essere a un passo dalla morte. E la morte arriva, a testimoniarlo sono le rasoiate distorte di Fripp che intervengono e si ritirano più volte, aprendo voragini elettriche mastodontiche in questo show di storpi, dove padroneggiano prima i fratelli Giles alla sezione ritmica, poi Fripp con una serie di riff jazz poi quasi industrial, mentre i Giles si perdono in tempi sempre più improbabili, e si riagganciano a tutti gli altri in una serie di silenzi e riprese coordinate, che pongono fine a una lunga serie di frasi e risposte tra Fripp e gli altri, a giro. Fine della prima fase, inizio della seconda fase, questa ancora più subdola, ancora più in crescendo, prima con i Giles che si arrampiacano dagli inferi, per poi farsi sempre più tetri, poi sale anche Fripp, che scandisce un lungo assolo dalle sembianze tutt'altro che melodiche, più simili al baccano della città, qua esaltato in tutta la sua innaturalezza (come innaturale è l'immagine dei denti rotti in mano), in contrapposizione con la pace dell'introduzione.
    Fatti due conti, si tratta di otto minuti di jazz-rock con una chitarra dissonante come non se ne erano mai viste nel genere, con scale squadrate e tozze, così imparentate con l'heavy metal che verrà, che sembra strano sentirle già così evolute e già -allo stesso tempo- contaminate. Un brano spaventoso, anche per questo capace preannunciare il metal più duro e consapevolmente luddista o immancabilmente votato all'orrore e al maligno. Anima perduta / Traccia perduta / Perduta all'inferno. Ecco che la pace senza fine diventa dannazione e perdizione eterna.


    la perdizione è reale

    Un arpeggio di Fripp introduce Gordon Haskell, delicatissimo e pietoso nel suo cantare commosso, al posto di Lake, nell'acustica Cadence And Cascade. Se la precedente svolge il compito che nell'esordio toccava a 21th Century Shizoid Man, questa è invece l'alterego di I Talk To The Wind, un lento da brivido, più malinconico e soffuso della sua omologa del primo (e in un certo senso meno "pop").
    Il brano parla di due groupies (cortigiane tristi), donne a uso e consumo del musicista, che lo seguono in ogni tappa del suo percorso, in un mondo (anche qui) fatto di lustrini (come un circo), pronte a dare il loro corpo in cambio di una collocazione in un mondo che le vedeva emarginate. Contrappunti di piano e flauto traverso stendono il brano allungandolo nell'atmosfera, senza mai fargli toccare terra, e le cose procedono sempre più rarefatte ed esili, come quel tocco raffinatissimo di Giles sui piatti, nel finale.
    Il mondo delle grupies è anche esso una allegoria, non è altro che l'inferno di cui sopra, che si fa realtà. è chiaro che l'intento dei King Crimson nella persona del grande paroliere Sinfield era di concretizzare in una realtà fattuale e storica una idea solo abbozzata con suggestioni negative in Pictures Of A City. Rullo di tamburi: fa ingresso l'inferno sulla terra. La perdizione allora è reale ed è palpabile, è l'uomo che diventa mezzo e non il fine per l'altro uomo (Noi ti serviamo soltanto).
    Pesantissimo pompa il mellotron suonato da Fripp in In The Wake Of Poseidon, apre un varco di archi sintetizzati, che sostiene tutto il pezzo, pesantissimo, in netto contrasto con la leggerezza del precedente. Poseidone, il dio delle acque irradia la sua forza attraverso la fluidità espressa bene dalle registrazioni del mellotron, ma sul pelo dell'acqua brilla leggera qualche sfumatura acustica, accennata ogni tanto, secca secca, sempre da Fripp, grande curatore del particolare e della ricerca della finezza sublime. Ma il protagonista del pezzo è senza dubbio Micheal Giles, alla batteria, che con un lungo assolo a più riprese, si mimetizza nel tumultuoso moto ondulatorio e circolatorio della massa acquosa, accarezzando tutto il suo set con maestria, anche esso, molto secco e diretto, senza perdersi in effetti, colpisce e segna nitidamente il suono sullo sfondo sintetico creato da Fripp, non sgrana il pezzo e non fuoriesce dall'aspirazione del brano (più che altro sinfonica) ma si insinua nella sua struttura, seguendone o contraddicendone la ritmica, fuori dagli schemi, saltando o aggirando gli ostacoli, come l'acqua, quando si scontra con gli scogli che, una volta superati, vengono distanziati sempre più in lunghezza, con repentine accelerazioni, o brusche pause. Questo pezzo è l'omologo di Epitaph nel precedente, però io in questa vi trovo importanti differenze, perchè ove la prima già presentava gli stessi elementi primi, questa sfrutta meglio il cantato, in questi otto minuti, facendo di questo la melodia portante del pezzo, e del batterista il vero e proprio fantasista. Epitaph peccava nella sua struttura troppo schematica e oserei dire ingenua, tipica di una band che si stava approcciando a una formula nuova, ora certamente più rodata, e che in futuro verrà usata con ulteriore consapevolezza, pensiamo a Lizard e Islands, per non parlare poi della fase successiva.
    Il concetto è sempre quello: la perdizione è qui sulla terra, l'inferno è già attuale. Si parla dell'uso strumentale della religione (I re al servizio del vescovo roteano le spade del giuramento / Incidono la parola "Fede" su tombe senza nome), il tema della guerra (Le mani degli eroi ... per pulire il coltello incrostato) e della rottura dell'armonia eterna di cui sopra (vedi l'immagine dei piatti della bilancia).
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    A proposito di Cat Food, singolo che anticipò l'album, Fripp ebbe a dire "si tratta di rock n roll, se vuoi etichettarlo, ma rock come Crimso lo suona". In altre parole una vera e propria hit in 19/8, non è facile trovare un pezzo del genere nelle charts. Una perla jazz-rock cantata da un Lake cabarettistico, che si lancia in una sarcastica invettiva contro il circo del consumismo. Una burla, uno scherzetto, ecco spiegata la frizzantezza di questo pezzo, costellato di schizzi solistici che si intrecciano, con un Tippet velocissimo e acrobatico che domina i giochi e un Fripp dalle mille grandiose incursioni elettriche fragorose e quindi scenografiche ma anche acustiche, senza contare i continui dialoghi tra i portentosi fratelli Giles, una poderosa sezione ritmica, che sforna giri di basso killer che ben si sposano alle taglienti cascate di note sparate da Tippet.
    I personaggi di questa buffa commedia sono figure comiche come Lady Supermarket, la personificazione della massaia, vittima dell'alienazione da supermercato; o Lady Window Shopper o Lady Window Stamper pronte ad avvelenare se stesse ed i loro cari con improbabili prodotti di dubbia fattura come l' Hurri Curri. Tutto sembra un'orrida sfilata del grottesco, con dei domatori di leoni o gran cerimonieri dai volti rassicuranti, che sono Manager e uomini d'affari, che crescono la loro clientela nutrendola giorno dopo giorno e alimentandola, con prodotti che creano dipendenza e intossicano chi li compra. Anche questa è l'ennesima raffigurazione della perdizione in terra. Un'altra allegoria o un girone infernale, rigorosamente terreno e concreto. Il consumismo come immagine del diavolo.
    Una canzone così in In The Court Of The Crimson King non c'è. C'è il faccione con la bocca aperta, ma non c'è questa canzone.
    Fu un successo, e chi acquistava il singolo, poteva godere di una ottima b-side, che ora potete trovare come bonus track nel remaster su cd, il titolo di quest'ennesima perla è Groon, uno spettacolo sullo stesso stile di Cat Food, ancora più veloce e improvvisata, praticamente materia prima per lunghe jam nei concerti, un galoppo di batteria e di Frippismi vari, che prelude tutto il cuore del jazz rock più chitarristico che verrà.

    In questo Inferno dantesco, il punto più basso deve essere ancora toccato. Succederà solo con The Devil's Triangle, l'unica a poter grattare la pancia degli inferi, fino a raccoglierne a piene mani tutto il male. Una lenta inesorabile marcia prende piede dal totale silenzio catacombale. Non ci sono parole e qualsiasi verbo è lasciato da parte, per questo gli undici minuti sono tutti strumentali, c'è spazio solo per una citazione dell'opera "I Pianeti" di Gustav Holst, scritta nel 1914, e ora ripresa, come di moda in quegli anni, ma senza accreditarne l'origine all'interno dell'album.
    La strumentale si compone di tre parti (Merday Morn, Hand of Sceiron, Garden of worm), dominate dal sinistro suono del mellotron, somigliante più al fragore di un transatlantico che getta fumo nell'aria, lentamente prende corpo la suite con il rullo dei tamburi di Giles, intagliata nell'elettronica e nel rumore, nella seconda parte, che man mano si deforma in uno schizofrenico e frenetico susseguirsi di flash sbiaditi ma colmi di orrore, per giungere ad un finale puramente free jazz, dove è la dissonanza e la cacofonia a far da padrona, e l'ascoltatore viene sbalzato e steso dalla violenza di quello che sta vanamente provando a ricomporre nell'ascolto.
    Ma tutto immancabilmente si placa, si ricompone, il viaggio è finito, e si torna coi piedi per terra, a quella pace declamata nell'introduzione, e che ora torna per la conclusione di questa seconda facciata, segno che comunque la ragione alla fine domina sempre, ed è comunque possibile dominare tutte le forze più oscure e indomite. è l'unico modo per sottrarsi alla condanna alla perdizione eterna.
    Cercando me
    hai guardato ovunque
    eccetto accanto a te
    Cercando te
    hai guardato ovunque
    ma non dentro di te

    E a guardar bene, è l'unico modo per sottrarsi alla solitudine eterna, all'alienazione nella città dannata o nel supermarket avvelenato, o ai margini di uno show pieno di lustrini come una grande corte, o nella tomba della fede dove sono sepolte senza nome tutte le vittime delle guerre. A guardar bene è l'unico modo per restare esseri umani ed evitare di trasformarci in caricature di uomini in cerca di cibo per gatti e donne da usare e riusare a piacimento.
    Pace è la fine, la morte di tutte le guerre.
     
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  2. sabbathiana
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    stupenda recensione pari alla bellezza dell'album.
    CITAZIONE
    In the wake of Pseidon forse è l'unico album che prosegue (quasi simmetricamente) il primo

    oltre a questo credo anche se sia un ottimo filo conduttore tra "In the court of the Crimson King" e "Lizard". Sinceramente non ho molto presente nella mia testa il primo pezzo di quest'anno ma una cosa è certe, io non ero riuscita a interpretare e vedere tutte le cose che ha notato Davide in questo breve brano di cui io ricordo essere solo molto metallico. La descrizione di Cadence And Cascade fa sognare! In The Wake Of Poseidon è sicuramente la più elaborata ma la mia preferita resta Cat Food, è gioiosa, vitale, allegra..... insomma da cartone animato d'azione, come le musichette del vecchio Spiderman che noi tutti guardavamo da bambini
     
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    Le recensioni di Davide non sono recensioni, son manuali da leggere più volte per esser pienamente capite. Tra il vocabolario abbondante e le citazioni "esterne" alle canzoni, a me ci vuole molto tempo per capire a fondo la tua descrizione dell album :)
    Questo disco lo conosco molto poco...non ho ricordi ancora vivi in testa. Al più presto ascolterò :fico:

    SPOILER (click to view)
    Ma indigestioni alimentari tu no eh?!
    Tra musica e parole, non ti fermi mai :asd:
     
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  4. John Hubert Cumberdale
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    CITAZIONE (°THE PATIENT° @ 12/4/2009, 15:07)
    Le recensioni di Davide non sono recensioni, son manuali da leggere più volte per esser pienamente capite. Tra il vocabolario abbondante e le citazioni "esterne" alle canzoni, a me ci vuole molto tempo per capire a fondo la tua descrizione dell album :)
    Questo disco lo conosco molto poco...non ho ricordi ancora vivi in testa. Al più presto ascolterò :fico:

    SPOILER (click to view)
    Ma indigestioni alimentari tu no eh?!
    Tra musica e parole, non ti fermi mai :asd:

    :D capisco, mi rendo conto di essere sovrabbondante a volte, però se scrivo e mi dilungo su qualcosa è perchè ciò che già si trova in giro è incompleto o poco corretto... nel caso di IN THE WAKE OF POSEIDON volevo semplicemente rendere giustizia ad un disco spesso ignorato e messo in secondo piano rispetto all'esordio. Beh lo volevo "vendicare" in questo approfondimento, in chi ho speso pochissime parole per l'esordio ed ho ristretto AL MASSIMO il campo per parlare solo e soltanto dell'album. Poi non ho sbrodolato testi a go go, ma ho ragionato sulle parole da inserire (tradotte), non aveva senso copiare e incollare testi in inglese, già è un'opera complessa, se poi la complico ulteriormente, difficilmente la si capisce, invece volevo appunto darne una lettura semplice, come credo che farò anche con altri album dei KC su cui mi voglio soffermare.

     
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  5. Eclipze
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    Analisi davvero ben fatta. Molto interessante
    Anche secondo me è un disco incredibilmente sottovalutato. E' innegabile il fatto che sia molto (forse troppo) simile al disco precedente, ma resta il fatto che approfondisca certi elementi che erano appena accennati nell'esordio. Canzoni come Cat Food e Devil's Triangle soprattutto sono completamente nuove. E Candence and Cascade ha una delicatezza assolutamente unica, che come hai ben sottolineato la rende profondamente diversa dalla gemella I Talk To the Wind.
    E' un disco secondo me più ragionato e meno folle del precedente, un disco da conoscere assolutamente. Certo non ha l'importanza storica del disco d'esordio, ma chi se ne frega. Quella la lasciamo a chi vuol conoscere i KG in maniera superficiale, e si procura i 3-4 dischi che la critica ritiene fondamentali. Per chi è interessato invece alle emozioni che questa band riesce a regalare nel corso del suo percorso artistico, questo è l'ennesimo disco imperdibile.
    Come hai giustamente sottolineato, ci sono parecchi richiami alchemici in questo disco, che ha parecchie chiavi di lettura.
     
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    Esegeta
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    In the court of the Crimson King non solo fu una svolta per la storia della musica, ma pose anche una pietra miliare e tombale per la storia dei Robert Fripp e dei suoi King Crimson.
    Miliare, perchè tutto ciò che seguirà non potrà mai sottrarsi al paragone con l'epocale esordio, sia dentro sia fuori dalla carriera dei King Crimson.
    Tombale, perchè nessun album di Fripp avrà mai l'attenzione (del resto inaspettata) del loro esordio, per questo, passati di moda, i King Crimson finiranno con l'essere associati al loro esordio e basta, quasi che tutto il resto fosse una ripetizione di quanto già fatto, o come se quanto fatto nell'esordio fosse in qualche modo insuperabile.
    In the wake of Pseidon forse è l'unico album che prosegue (quasi simmetricamente) il primo, ripercorrendone la logica nei passaggi tra i brani (parte dei quali si deve supporre essere provenienti dalle stesse sessions precedenti), e riproponendone intenti e larga parte dei mezzi (del resto è naturale, visto che sono passati solo sette mesi dall'esordio). Anche il titolo è una assonanza con In The Court of the Crimson King.

    Partiamo proprio da ciò per avvalorare la tesi di John: ITWOP subisce negativamente la presenza del moloch dell'esordio. Non si sa come, tuttavia i KC sono stati sfortunati rispetto ad altri grandissimi gruppi, i cui capolavori - usciti in un determinato ordine cronologico - godono tutti di uguale rispetto e fama: Black Sabbath, Led Zeppelin, Deep Purple, Genesis e via dicendo. Invece dei KC spesso si ricordano solo pochissimi dischi e raramente vengono utilizzati come vessili della buona musica.

    ITWOP è speculare rispetto a ITCOKC, sia a livello musicale, sia a livello di assonanze e rimandi. Una concatenazione di corsi e ricorsi, a partire dal titolo dei dischi. Da una parte la corte del re cremisi, variazione del rosso, dall'altra la scia (ma vuol dire anche "veglia funebre") di Poseidone, sovrano dell'azzurro regno sottomarino. Specularità, gioco degli opposti, che si attraggono e si sfidano.

    Eppure questo disco è clamoroso nella sua bellezza, bistrattato ingiustamente.

    Come uno specchio allo stesso tempo riflette e distorce:

    Pictures of a city ---> 21st century schizoid man

    In the wake of poseidon -----> epitaph

    Personalmente questi sono i primi, lampanti e immediati, rimandi che mi sono corsi alla mente ascoltando e confrontando i lavori. D'accordissimo con Davide, volevo solo riportare una considerazione sulla perla del disco: The Devils Triangle. E sulle sensazioni e immagini che mi evoca, ossia il tema della guerra contrapposto alla pace, divisa in tre movimenti.

    Una marcetta militare, tastiere inquietanti, rimando all'opera classica, come le fughe soprattutto nell'uso del tamburo e degli accorgimenti ritmici è l'incipit di uno spiral degna di essere una colonna sonora di qualche pellicola dell'epoca. Venefico, tormento, scuote e tocca dentro, provoca ansia e claustrofobia, degno di una battaglia tra due armate composte dagli spettri dei caduti, vestiti di divise stracciate e logorate dalla polvere da sparo e dai fendenti delle baionette. E' una battaglia campale tra schieramenti silenziosi, intrepidi perchè non possono più provare dolore, spinti a combattersi e fiancheggiarsi in eterno, senza emettere un urlo, un sussulto, senza versare lacrime o sangue, La paura e l'eroisme hanno abbandonato questi luoghi. Un breve ticchettio, il tempo si ferma per poi riprendere con più vigore di prima, inesorabilmente disinteressato dalle sorti del conflitto inerme.
    La chiusura presenta un passaggio dall'esordio.



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  7. John Hubert Cumberdale
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    è un mistero come OGGI (a quei tempi le cose fuorino viste in tutt'altro modo) i KC si siano ridotti a uan sorta di one-shot-band. Eppure sono costante attività.

    comunque purtroppo i bei testi finiscono con l'era di sinfield. tutta la simbologia, i miti, i valori e i sogni. da quando sinfield viene allontanato, dopo islands, cala un velo di mistero su cosa cazzo vogliano dire quasi tutte le canzoni...
    alcune avranno pure bei versi suggestivi e tutto (vedi starless... che tra l'altro è il loro brano che preferisco), ma non la magia che dava sinfield.
     
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  8. Norvegese
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    si, verissimo, questo l'avevo notato pure io: infatti l'unica pecca che trovo in "Discipline" sono proprio i testi, non che siano brutti, ma non mi trasmettono nessuna emozione, anonimi in confronto a quelli della prima parte di carriera...

    Certo io non vado a preferire "Elettroshock" dei Matia Bazar a "Indiscipline" però ^_^
     
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  9. John Hubert Cumberdale
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    CITAZIONE (Norvegese @ 27/4/2009, 17:43)
    Certo io non vado a preferire "Elettroshock" dei Matia Bazar a "Indiscipline" però ^_^

    ODDIO, faccio leggere subito ad anna :D
    aauahuahauhauahu

    CITAZIONE (Norvegese @ 27/4/2009, 17:43)
    si, verissimo, questo l'avevo notato pure io: infatti l'unica pecca che trovo in "Discipline" sono proprio i testi

    lo stesso dicasi comunque anche di tutti gli album di dopo Discipline. L'attenzione è tutta per il suono delle parole, nulla più. Pure Larks tongues in aspic part III si conclude con una coda cantata ("I Have A Dream") che non è poi il massimo... sembrava di che cazzo dovesse andare a parlare dopo trent'anni e invece il momento in cui si trasforma da strumentale a cantata è un coito interrotto a causa di un testo un po deludente.
     
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8 replies since 12/4/2009, 00:36   696 views
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