DEAD MEADOW - Howls From The Hills

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  1. John!
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    Dead Meadow, "Howls From The Hills"

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    Etichetta: Tolotta

    Anno: 2001

    Tracklist:
    1. Drifting Down Streams
    2. Dusty Nothing
    3. Jusiamere Farm
    4. The White Worm
    5. The One I Don't Know
    6. Everything's Going On
    7. One and Old
    8. The Breeze Only Knows



    Howls From The Hills” si assume a stomaco pieno, anzi traboccante, perché la digestione deve privarvi di tutte le energie, in modo tale che siate predisposti a farvi trasportare. Inserite il dischetto nello stereo, pompate il volume al massimo, chiudete le tapparelle in modo tale che nella stanza il sole possa filtrare attraverso i buchi e si proietti sulla parete corrispondente, formando una specie di cielo stellato nel buio della vostra stanza, che potrete osservare una volta che vi sarete stesi sul letto.
    Nell’oceano dello stoner ci sono album che ti possono eccitare, album che ti fanno scatenare, poi ci sono album come questo, che ti ipnotizzano. L’introduzione di “Drifting Down Streams” serve proprio a incantare l’ascoltatore, come fosse un serpente nella cesta; è difficile resistere a quel vibrato che senti proprio dentro la testa, e così resti immobile e indifeso, prima dello spietato attacco del batterista che prelude l’inizio della jam, che ha a che fare con qualcosa di space (che è l’antipasto) con una cena lisergica e con un ammazzacaffè hard, heavy e cattivo pur con un alone pop floreal hippy che ammorbidisce sempre il tutto. Questi Dead Meadow ricalcano ne più ne meno il consueto insieme di influenze che è tipico di ogni band del genere, quindi inutile sfondarvi le palle menzionando i cinquecentomila gruppi rock psichedelico del passato(ovviamente tutti presi e reinterpretati sotto una veste attuale e consapevole, portando all’estremo tutti gli elementi stonanti della musica del passato), più utile invece è dirvi che per esempio, rispetto agli Earth di “Pentastar” i DM sono meno concettuali e molto più pesanti, pur riproponendo la loro identica concezione della musica, intesa come un modo per straniare e far sognare; rispetto ai Los Natas invece sono meno ritmocratici, tutti gli strumenti passano in secondo piano innanzi al potere delle chitarre; rispetto ai 35007 i brani hanno una pur accennata forma, e poi sono cantati, anche se la voce è immersa in veicoli musicali enormi, nei quali infatti essa prova ad adattarsi, deformandosi e riempiendo, con la sua estenuante lentezza nello scandire ogni parola, tutto lo spazio a sua disposizione, anche se la sensazione è sempre quella di un cantato abbozzato, che lascia sempre spazio ai musicisti per far costruire e decostruire pezzi complessi e affascinanti, dove la lentezza è eretta a valore fondamentale, e in quella lentezza perdiamo il filo del brano, che si evolve, si smaglia, si disintegra in acide detonazioni e mille viaggi concentrati in un solo pezzo, tra suggestioni e suoni sconvolgenti, talvolta onirici, come avviene nella stupenda suite “The White Worm”, che è la sintesi della poetica che caratterizza l’intero disco, nonché uno dei capolavori di tutto il filone psicostoner, dove la tecnica non è tale ma è semplicemente ARTE. “Dusty Nothing” paragonata al brano d’apertura è una canzoncina blues slavata e sedata, senza particolari meriti ne infamie, ma paragonata alla media di pezzi simili in ambito stoner e fuori, mantiene comunque una sua dignità, come del resto “Justamarie Farm”. In versione acustica la band sa dare grandi emozioni, come avviene nella bellissima “The One I Don’t Know”, dove i Beatles si bagnano nel mare desert e country. Tutto ha un aspetto sereno e rassicurante, lo splendore dell’album sta proprio nel suo calore, che supera anche l’atmosfera nebulosa degli esordi della band; questo è infatti il punto d’arrivo per i DM, dove non manca assolutamente nulla, nemmeno il brano heavy “Everything Is Going On”, che propone un sound grezzo e diretto, tutto una tirata, pronto a esplodere tra le mani: hard rock, garage e acidità varie ed eventuali, tutte concentrate in un solo pezzo.
    Vibrazioni e wah wah in abbondanza aprono caoticamente “One And Old”, che è l’ultima e nebulosissima suite del lotto, un magmatico blocco di isteria drogata fino all’apatia, un campione di suono che proviene da chissà quale dimensione o chissà da quale pianeta, o da chissà quale pazzo svitato che ha deciso di fare una musica così psicotropa per farci immedesimare nella sua malattia mentale e farci calare nei suoi schifosissimi panni; la canzone (se di “canzone” si può parlare) è sabbathianamente oscura e pesante come una montagna, eppure riesce ad essere sempre rarefatta e atmosferica, tanto da fare il verso ai primi Mogwai, specialmente nel finale, una coda lunghissima in cui le chitarre si accarezzano, si stuzzicano, con arpeggi incantevoli.
    Ascoltare l’album in stato di dormi/veglia può darvi effetti imprevedibili, e forse è solo quello il modo per coglierne la straordinaria portata, ossia quelle sensazioni che nessuna parola potrà mai descrivere. Consiglio l’ascolto a chi pensa che certe cose gli “antichi” le facevano meglio di tutti… sicuramente le facevano PRIMA di tutti, ma non MEGLIO, qua dentro ci sono gli estremi dell’estremo, ossia NOME, COGNOME e INDIRIZZO della musica che deve colpirti il cervello e mandartelo a puttane. Consiglio l’ascolto anche a chi segue ed apprezza i vari psico-derivati e doom-derivati come i già citati e famosissimi Mogwai.

    Edited by JØHN - 15/9/2008, 12:58
     
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10 replies since 2/3/2007, 15:54   395 views
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