Rock e dintorni

Votes taken by Sciarpi

  1. .
    Io quando mi sono iscritto a questo forum ne avevo 25. Ora ne ho 41 (con moglie e due figlie).
    E nel frattempo mi sono messo ad ascoltare ste cosette qua...

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    Purtroppo si invecchia...

    CITAZIONE (MrBungle82 @ 6/7/2023, 00:30) 
    Grande Sciarpi, ciao! 😀

    Ciao Ema ;)

    Edited by Sciarpi - 7/7/2023, 18:01
  2. .
    CITAZIONE (Diego @ 17/4/2023, 23:32) 
    Ogni tanto ricordo di fare il login su forumfree e di tornare sul vostro forum.
    E che nostalgia a pensare che quando mi sono iscritto qui avevo appena compiuto 20 anni ed invece ora sono alle porte dei 40.

    Stesso pensiero fatto da me stamani...
  3. .
    Mannaggia a voi che mi trascinate in queste cose! In questi anni avevo già scritto un po’ di cose, quindi mi son detto, ma sì vai è facile, vai di copia/incolla e via! In realtà alla fine ho ripercorso le cose che avevo ascoltato in questi 10 (davvero tanta e tanta l’ho lasciata fuori) e in fondo è stata la cosa che più mi ha fatto compagnia. In fondo sono dieci anni di vita!
    Se la decade prima era stata quella del “ascolto tutto” questa è stata sicuramente quella della maturità. Ho trovato i miei generi, sono stato al passo con le uscite, ho legato dischi a dei momenti particolari ed ho comprato tanti dischi. Insomma, è stato un bel tuffo nel passato.
    Mi son dato alcune regole. All’inizio erano più stringenti, poi mi sono accorto che un punto di classifica in più o meno non avrebbe inficiato il valore del disco (e potevo starci sopra 3 mesi), quindi considerate che i primi 3 sono, per me, dei masterpiece. Un album per artista. Spesso è il suo esordio, a volte quello più rappresentativo per diversi motivi nella sua discografia, a volte è quello a cui sono più affezionato.
    Chiudo dicendo che, rileggendo i nomi qua sotto, si sia chiuso un capitolo. Chi non c’è più, chi si è bruciato con l'esordio, chi ormai ha già prodotto tre o quattro album di livello e il suo l’ha detto, chi si è dovuto reinventare. Chissà cosa ci riserverà questa decade appena iniziata, sperando di poterla vivere e raccontare con gli stessi sentimenti di questa appena trascorsa.

    20. David Bowie - Blackstar (2016)

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    Ammetto candidamente di non essere non solo un fan di Bowie, sono solo un ascoltatore “per completismo”, non ho mai finito un disco per intero, canzoni come Heroes mi scoglionano dopo 2 note, Ashes To Ashes e Let’s Dance hanno quelle sonorità di plastica tipiche degli anni ‘80 che mi fanno effetto kriptonite, non so niente delle avventure di Ziggy Stardust, Starman me la ricordo perchè era la canzone master del programma Meteore. Come tutti quelli della mia generazione, mi ricordo di Bowie in Labyrinth.
    Bowie è comunque un gigante della musica, forse “il personaggio” musicale per eccellenza, passato attraverso molte epoche musicali grazie anche a tanti travestimenti, pseudonimi, soprannomi e ambiguità.
    E a me questo disco tutto sommato mi piace. Ha dei picchi emotivi notevoli, Lazarus e la title track sono perle di rara bellezza compositiva. Non lucra su niente, lascia piuttosto un senso di “punto e a capo”, di ultimo giro di valzer. E’ un disco sincero, supportato anche da una band in palla, di chi ormai non ha assolutamente niente da perdere ma vuole, fino in fondo, poter lasciare e alla sua maniera, il proprio contributo. Ed è sincero il mio apprezzamento.

    19. Vinicio Capossela - Marinai, Profeti e Balene (2011)

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    Immenso viaggio tra il fondale marino, inferi della terra, luoghi nascosti e chi più ne ha più ne metta. Il mare come metafora della vita, la vita come lotta perenne con nemici invincibili - la balena, Polifemo, Dio. Ma anche amore, resurrezione, rinascita e rivincita.
    Opera titanica e spropositata, piena zeppa di citazioni letterarie e non - Moby Dick, il libro di Giobbe, l'Odissea, Dante Alighieri, Céline - certo non facile, ma va presa così, tutta d'un fiato.

    18. Robert Owens - Art (2010)

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    Sulle scene ormai da una vita, Robert Owens viene sistematicamente chiamato "Il Maestro". E solo un maestro poteva fondere così meravigliosamente il soul e la house, dando a un sound con chiari riferimenti al passato una veste così nuova.
    In quasi due ore di musica si può trovare la sensualità di Marvin Gaye, il blues, il jazz, il funky, il dubstep, l'hip hop. Una nota di merito va a Larry Heard e Atjazz, venuti a portare eleganza e luce, nonché alla straordinaria voce di Owens, protagonista assoluta in Ancestral History e in One Love.

    17. Tool - Fear Inoculum (2019)

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    Anni fa nel forum scrissi: aspetto il nuovo disco, un tour e metto su famiglia. E andata esattamente nel senso opposto a come scrissi. Probabilmente il disco negli anni non rimarrà, ha dei picchi assoluti inavvicinabili per tanti (i primi 6 minuti di Descending), alcune cose buone, altre sono vicine allo skip. Ma è stata l’attesa del disco che più mi va di ricordare. L’uscita del singolo, il ritornare su alcuni a forum a leggere qualcosa, i primi ascolti quando la bimba dormiva. Per non parlare poi del concerto, mi sono sentito in pace. Tutte cose fuori tempo massimo e anacroniste, ma è forse questa eccezione che le ha rese speciali.

    16. Barn Owl - V (2013)

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    E’ passato un po’ di tempo ma credo che questo disco dei Barn Owl (duo formato dai californiani Jon Porras e Evan Caminiti) sia stato una dei primi dischi che ho ascoltato di questo genere (che nuovo ovviamente non è) e che quindi merita di essere ricordato.

    Forti dei loro lavori solisti precedenti a questo disco, i nostri uniscono le forze e realizzano una full immersion oscura, dilata, che passa tra il doom e l'interstellare (Voix Redux), tra distorsioni in un'atmosfera impalpabile (The Long Shadow Against the Night), affreschi schulziani (Blood Echo), fino a lidi ancestrali (Pacific Isolation) e alla meravigliosa The Opluent Decline, la lunga suite che rappresenta l’attracco definitivo.

    15. Jamie XX - In Colour (2015)

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    Fermo con il progetto principale e dopo aver remixato di tutto, da Adele ai Radiohead, In Colour segna il debutto da solista della fondatore nonché mente pulsante degli XX, Jamie Smith.
    L’album raccoglie tracce lanciati a pezzi e bocconi e rappresenta un piccolo bignami delle capacità di Jamie XX, un compendio di post dubstep soul, house, uk garage, folktronica a piene mani, una psichedelia da camera e un amore per la black music.
    Impossibile non sentire all'inizio di Gosh e Hold Tonight la ruvidità di un Burial o un Kode9, l’allegria spensierata di Four Tet in Sleep Sound e SeeSaw, la travolgente coralità di Loud Places. Chiude la meravigliosa In Girl, anima soul-disco su un meraviglioso giro di basso.

    14. 2814 - Rain Temple (2016)

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    Rain Temple è il seguito di Atarashii hi no tanjou uscito nel 2015 a firma 2814. Anche stavolta la copertina è fonte di ispirazione: se in Atarashii hi no tanjou l’osservatore principale era lo stesso che guardava la copertina, stavolta si fa un passo indietro perché si osserva una ragazza in bianco intenta a contemplare un paesaggio simile a quello del disco precedente. Una prospettiva diversa, così come sono diverse le dinamiche all'interno del disco rispetto al lavoro precedente.
    La maestosa Before The Rain - degna dei miglior Saad - spiana la strada al loop in crescendo di Eyes Of The Temple, mentre l’ipnotica Lost In A Dream potrebbe stare benissimo dentro a un disco di Andy Stott. Guided By Love ricorda il post rock dei primi Sigur Ros mentre Transference unisce trip-hop e shoegaze in un tubo al neon. La vaporwave torna a fare capolino in questa bella prova di conferma nel trio conclusivo This Body, Contact e Inside The Sphere.

    13. Forest Sword - Engravings (2013)

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    Debutto vincente su lunga distanza per Matthew Barnes con il moniker Forest Sword, dopo una serie di validi ep.
    Di fatto un calderone di ritmi trip hop, post rock, voce a bassa fedeltà, cut and paste, echi soul e folk, una spruzzatina dream pop. I clangori metallici di Thor's Stone ricordano i Demdike Stare così come Onward e The Plumes, mentre tribalismi e ritmi orientali la fanno da padrone in Irby Tremor. La soul step di An Hour va a braccetto con Anneka's Battle, pezzo in stile Bath For Lashes mentre Gathering è un portentoso call and response.

    La monumentale The Weight Of Gold e la chiusura con Friend, You Will Never Learn, racchiudono tutto quanto detto finora: ritmo sincopato, anima celestiale, voce low-fi e groove impressionante.

    12. Nicolas Jaar - Space Is Only Noise (2011)

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    Altro esordio con il super botto. Nicolas sembra un sarto di lungo corso; taglia, cuce e ricama. Rivoli d'acqua, field recording di vita quotidiana, pianoforte, campionamenti illustri (Ray Charles nella sua I Got A Woman, miglior canzone del disco), archi, groove tra il trip hop e la house. Da qui in poi Jaar diventerà una star internazionale, acclamato in tutti festival internazionali e djset, rilasciando anche due dischi a nome A.A.L. dove si strizza l’occhio al dancefloor e compagnia bella.

    11. Calibro 35 - Ogni Riferimento A Persone Esistenti O A Fatti Realmente Accaduti è Puramente Casuale (2012)


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    Che i Calibro35 siano una delle migliori band italiane su piazza non credo che sia un mistero. In 10 anni hanno prodotto 6 dischi, cambiando molto spesso forma e contenuto, pur mantenendo sempre quel groove che da sempre li contraddistingue.
    Ho scelto questo disco perché (l’ultimo secondo me è anche meglio, perchè pur non avendo un’idea di fondo le canzoni “puff” hanno tutte clamorosamente un senso e suonano a meraviglia) semplicemente è con questo che li ho cnosciuti. Questo è il terzo album per la formazione milanese, uscito per la Venus, che segna uno smarcamento dai dischi precedenti con pezzi più compatti e l’aggiunta delle voci (in ben tre canzoni). Proprio questo è l’elemento che più caratterizza questo album: con Uh Ah Brrr è già l’ora dell’aperitivo, un bel Cynar con Il Pacco e poi tutti a fare una bel furto con scasso in La Banda Del B.B.Q. (Brooklyn, Bronx, Queens), misto funky e i Proppelerheads dei tempi d’oro. L’album si apre con il basso misterioso di Luca Cavina e la canzone è tutta un nascondersi nella notte fino all’inseguimento finale, si va poi a New Dehli Deli tra i Beatles e i Kula Shaker, per scivolare in un po’ di romanticismo in Buone Notizie. Ma la giornata prima o poi finisce, il Massacro All’Alba non è un’opzione ma un destino, il pezzo migliore del disco, epico, cattivo, tutto groove di basso e tastiere. Immancabili le due cover New York New York di Piero Piccioni e Passaggi Nel Tempo di Ennio Morricone.

    10. Michael Kiwanuka - Love & Hate

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    Michael Kiwanuka è un ugandese emigrato a Londra. Impara a suonare la chitarra ma, per sua stessa ammissione, non aveva mai pensato di poter diventare o il leader di una band oppure di produrre dischi a nome proprio. Fa semplicemente il turnista. Dopo il buon esordio con Home Again, Michael stavolta ci crede fino in fondo e piazza nella magnifica opener Cold Little Heart i Pink Floyd più scintillanti e la sua morbida voce.
    Ed è questa maturità artistica a spiccare appena premuto play, soprattutto nel trittico a metà disco in Falling, Place I Belong e la title track (che nel mood ricorda Inner City Blues di “che te lo dico” a fare Marvin Gaye).
    Love & Hate è un viaggio sincero, un disco di ampio respiro, più impegnato del precedente. Di fatto uno dei migliori dischi di musica black-soul del decennio, per un personaggio che ancora rimane con la barra diritta (a riprova, anche il recente KIWANUKA è molto valido).

    9. Demdike Stare - Elemental (2012)

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    Scoperti per puro caso, il duo formato da Sean Canty e Miles Whittaker, mi affascinò da subito, con i dischi precedenti Symbiosis e Tryptych. Elemental riprende i tre Ep precedenti (Chrysanthe & Violetta, Rose and Iris) con alcune canzoni in alternate version. Ed è di fatto l’epica conclusione di un percorso nato con Symbios per il duo inglese, dove dub muscolare, post industrial, ectoplasmi techno, drone, tessiture ambientali da horror-soundtrack ed esoterismo si mescolano in un suond post-nucleare. Li ho visti anche dal vivo, da solo, nella mia città e furono 2 ore e mezza spettacolari.

    8. Steve Von Till - A Life Unto Itself (2015)

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    Il maestro dell’Idaho (voce e mente dei Neurosis) giunge al quarto disco solista, da aggiungere al non meno importate progetto Harvestman. Niente sfuriate post metal della band madre, ma un folk oscuro, voce baritonale a scandire inquietudini giornaliere sopra un pianoforte dismesso e un fingerpicking magistrale. Album minimale ma di una ricchezza timbrica meravigliosa, merito anche della viola affidata a Eyvind Kang, con Pat Schowe alle percussioni e J. Kardong alla pedal steel. Elegante come un funerale, un disco meraviglioso.

    7. Hammock - Mysterium (2017)

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    “Quando succede qualcosa di simile, a volte il silenzio è la risposta migliore, perché non sai cosa dire quando qualcuno sta vivendo quel dolore. C’è il tempo in cui puoi giocare nell’oscurità e puoi glorificarla e romanticizzarla. E poi c’è il tempo in cui essa è presente ed è reale.”

    Mysterium era inizialmente nato con tutt’altro intento ma la scomparsa nel 2016 di Clark Kern, figlio della sorella di Byrd, ha cambiato il lavoro in corsa (basta semplicemente leggere i titoli delle canzoni).

    L’intento è quello di mantener fede alla promessa iniziale, affidandosi a commoventi archi nella monumentale opening Now And Over Yet, aggrappandosi ad un coro di voci (Mysterium, I Would Give My Breath Away, Dust Swirling Into Your Shape), a poche note di piano e chitarra immerse in un elettronica dilatatissima (When The Body Breaks, Nominus, Thing Of Beauty Burn). Oscurità e luce si trovano Dust Swirling Into Your Shape e l’album si snoda in un crescendo continuo, frutto di un’eccellente compattezza compositiva che trova il suo definitivo climax in Remeber Our Bewildered Son ed Elegy.
    Gli Hammock ci trasportano mano per la mano nel loro lungo viaggio ed è nel finale colorato alla Sigur Ros di This Is Not Enough in cui si abbozza un sorriso per reagire alla sofferenza.

    Supportato magistralmente da Francesco Donadello, Peter Katis, l’orchestratore di Amburgo Roman Vinuesa e in particolare tutto il Budapest Art Choir, il duo americano americano realizza un requiem non scontatamente funebre ma che crea una profonda empatia con chi lo ascolta, dosando saggiamente parti orchestrali, inserti ambient e cori, mai come in questo album determinati. Equilibrando saggiamente questi tre elementi riescono a creare un continuum narrativo, realizzando di fatto un’elegia profondamente sincera e sentita.

    6. Eluvium - False Reading On (2016)

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    Seguo Matthew Cooper ormai da un po’ di tempo, credo da dopo l’uscita di Copia (2007) dopo averlo visto, per caso, dal vivo di spalla agli Explosion In The Sky. Presenza sempre discreta la sua, non un mostro di prolificità visto che gli ultimi due dischi sono equamente divisi nell’arco di 6 anni (Smiles nel 2010 e Nightmare Ending nel 2013).
    A questo giro Eluvium riprende in mano la sua creatura e piazza un deciso colpo all’evoluzione del suo sound: sé Copia era il capolavoro dell’equilibrio da ambient e musica orchestrale, qua il matrimonio è tra ambient e canto sacro. Le struggenti voci liriche (Strangeworks, Regenerative Being, Movie Night Revisited, Rorschach Pavan) condotte da scie di chitarre e sintetizzatori in una forma orchestrale dai contorni estremamente sfumati, sono carezze della mano più amorevoli, la perfezione cristallizzata tra i ghiacci di Erebus – precedente collaborazione di Eluvium con Bvdub.
    E anche gli interludi (Fugue State, False Readings On) o i semplici pezzi più ambient cementano ancora il leitmotiv del disco, la suddivisione di un istante, così come l’uomo in copertina, un insieme di puntini trascinati da una marea sonora.

    5. James Blake - James Blake (2011)

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    L’esordio degli esordi..

    James Blake è un ragazzetto classe 1989, nato a Londra, figlio di James Litherland - storico chitarrista dei Collosseum. Ha un ciuffo che gli cade sulla fronte, è timido e ascolta Burial. Nel 2010 si fa notare per tre Ep dal titolo The Bells Sketch, CMYK, Klavierwerke.
    Ma è con il primo album vero e proprio che James Blake riesce a fare il pieno di ascolti e successo tra gli addetti ai lavori e non.
    Ha avuto l'intuizione giusta James Blake. L'intuizione giusta che lo differenzia da altre nuove leve - James Woon, The Weeknd - è quella di aver aver rimesso al centro della propria musica la voce, senza ricorrere al canto di altri o di sampler sparati in loop. E nonostante gli effetti su di essa, ha molto calore e riesce a toccare le corde giuste.
    Le basi sono delle piccole spruzzate di dub, di glitch, di wonky qua e là per raccogliere e fare da tappeto alla voce.
    Un disco di straordinaria intensità che dà il meglio di sé nella seconda parte, con la meravigliosa cover di Feist, Limit To Your Love e la morbidezza di I Mind e To Care (Like You).
    Farà meglio anche nel disco successivo, produrrà singoli, ep ed altri due dischi. Ma è troppo timido per diventare famoso ed andrà un po’ in confusione.

    4. The Black Keys - Brother (2010)

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    Dopo quasi 10 anni di carriera, i Black Keys con questo album cambiano definitivamente il loro sound, riuscendo a compiere una metamorfosi che era rimasta in sospeso con l’album Magic Potion.
    Il duo mette da parte i riff tagliati con l’accetta di Thickfreakness e Rubber Factory per far posto ad una miscela funky (Everlasting Light, Next Girl) e soul (Too Afraid To Love You, Ten Cent Pistol) sicuramente più ascoltabile (e digeribile) ai più ma non per questo di qualità inferiore. Ma non solo. Gingilli prettamente pop come Tighten Up, The Only One e Never Gonna Give You Up nei dischi precedenti non c’erano mai stati.
    Ritorna il blues, con quel refrain alla She’s Alright di Muddy Waters, nella trascinante She’s Long Gone, mentre Black Mud è il solo pezzo strumentale.
    E’ il disco che lancerà i Black Keys nell’iperspazio del successo. Da qui in poi non sarà niente più come prima, purtroppo.

    3. Ben Frost - The Center Cannot Hold (2017)

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    Per mia moglie, il perché mi piaccia la musica che fa questo tizio e il perché lo ascolti da anni, rimane un grosso mistero. Ho provato a farglielo vedere dal vivo ma la prima volta si è addormentata mentre alla seconda, addirittura al ClubToClub nel 2017 (incinta) è uscita dalla sala. Se provo a spiegarglielo a voce, alla terza frase mi dici “si ma vieni al sodo”. Quindi è ufficiale, c’ho rinunciato.

    Di Ben Frost mi ha sempre affascinato il risultato di essere “un gesso su una lavagna”, avete presente no? Ma By The Throat è del 2009. Sono passati un po’ di anni, nel frattempo ho ascoltato anche altre cose. Ed anche Frost non è stato fermo, diventando - già con il precedente Aurora, disco che non ho mai apprezzato fino in fondo - un “terrorista sonoro”. Al ClubToClub ho visto diversa gente tapparsi le orecchie fin dalle prime note di Threshold Of Faith. Erano le solite persone che 10 minuti prima erano nell’altra sala a vedere Arca & Jesse Kanda, quindi credo che a certi volumi fossero abituati, o perlomeno sapevano a cosa andavano incontro.

    Il problema di fondo è il dove vuol andare a parare l’irrequieto Frost. A fronte di questa muscolarità sonora, fatta di scelte da ciglio ancelottiano (tra cui Steve Albini come produttore), alcuni titoli delle canzoni buttati lì a casaccio, una debordanza in tutto e per tutto, si rimane spaesati e tanto valeva tenersi l’Ep Threshold Of Faith.

    Se invece ciò è virtù e non vizio, dove tutto alla fine si disperde e si inizia con il bianco finendo con il blue, districandosi tra respiratori artificiali (Threshold Of Faith), le rasoiate techno di Trauma Theory, momenti tra Apex Twin e Tim Hecker (A Single Hellfire Missile Cost $100,000, Healthcare), scenari alla Blade Runner (Eurydice’s e Meg Ryan Eyez), tra le storture marziali di Ionita o i beep intergalattici di All That You Love Will Be Eviscerated, beh allora Ben il centro non lo tiene - Things fall apart, the centre cannot hold è un verso tratto dalla poesia The Second Coming di W.B. Yeats - ma l’ha preso in pieno.

    2. Rafael Anton Irisarri - The Shameless Years (2017)

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    L’introduzione a questo disco l’ho scritta 4 o 5 volte, non trovando mai la versione che più mi convinceva. Credevo fosse il blocco dello scrittore quando invece, alla fine, ho capito che non c’è molto da introdurre, verificando ancor di più il detto “che parlare di musica è come ballare di architettura”.

    Allora mi calo in un mare di sincerità e mi limito a raccontarvi ciò che so e che ho ascoltato. Rafael Anton Irisarri, compositore americano tornato a produrre a proprio nome dopo un paio di anni spesi in collaborazioni e progetti paralleli.

    Fin dalla copertina, in parte atipica, sfondo bianco con impresse in rosso il titolo dell’album e in nero le tracce, una roccia immersa in una marea grigia, mi aspettavo una noia mortale. Invece mi sono trovato davanti un sound monolitico ma che non affonda l’ascoltatore nell’oppressione, anzi lo rapisce grazie al lento fluire delle sue molteplici sfumature.

    La malinconia di Indefinite Fields, avvolta in suono sgranato, confuso, che ti avvolge e ti lascia lì sospeso. Il crescendo di droni fino alla monumentale estasi finale di RH Negative o quello spigoloso Sky Burial. La struggente armonia di Bastion. La disarmante decadenza di Karma Krama e l’onda di The Faithless che, così come piano piano è arrivata, se ne torna indietro senza lasciar traccia di essa.

    Se questo è il tempo di chi è senza vergogna, il compositore americano registra il disco per un’etichetta messicana, la Umor Rex e collabora nelle ultime due tracce con un Siavash Amini, un producer iraniano.

    1. Tim Hecker - Virgins (2013)

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    In cima a tutto non poteva che esserci lui, per me. La scelta era ampia ma non facile. In una decade il canadese ha prodotto dischi straordinari come Ravedeath 1972, Virgins, Love Streams, Konoyo (io ci metto anche Dropped Piano) diventando un big della musica elettrostrumentale contemporanea.
    Ho scelto Virgins. Se An Imaginary Country puntava su una tavolozza infinita per dipingere il proprio paese ideale e l’organo in The Ravedeath per andare oltre, qua si gioca tutto sulla conflittualità tra il pianoforte e un magma dronico, aspettando un segno per diradare le nuvole, vedi ad esempio Virgianl I & II e le due Live Room. Se Stigmata I riprende la magniloquenza di The Ravedeath, è Stigmate II – pur ricordando la Killshot in apertura di Ben Frost – a sciogliersi in dolcezza nel finale. Chiude il disco la potentissima Stab Variation.
    Non avevo mai trovato, in ormai 15 anni che ascolto musica con orecchio e passione, un disco che rappresentasse in maniera così chiara ed evocativa uno stato d’animo. Il suo incedere wagneriano, quel pianoforte sgraziato, il perfetto incrocio tra massimalismo e minimalismo, gli archi carichi di malinconia sempre in lotta con quei droni pesanti come macigni, quei piccoli bagliori di luce sono state la colonna sonora dell’’annus horribilis che è stato il 2015.

    L’ho scelto perchè è stata la soundtrack di un preciso stato emotivo, la colonna sonora per tempi incerti e dolorosi.

    Edited by Sciarpi - 16/5/2020, 23:52
  4. .
    CITAZIONE (uovo mascherato @ 12/5/2020, 16:01) 
    Il meno poser tra tutti i poser

    Lemmy di sicuro non era un poser. Era per dire che, tra tutti quelli che si "addobbavano" in una certa maniera era il più sincero e vero.

    Dei dischi che hai consigliato li riascolterò volentieri. Ho marcato molto l'accento su questo disco in quanto, pur non essendo un vero e proprio esordio, è stato sicuramente un disco di svolta per un certo tipo di sound. Gli altri dischi sono una conseguenza di questo. La miccia per intenderci.

    Grazie a tutti per i complimenti e mi fa piacere che questa sia stata l'occasione per mettere su un po' di sano rock and fucking roll!
  5. .
    CITAZIONE
    Dopo un anno di pausa tornano nel 2019 con altri due dischi: Fishing for Fishies (un po' sottotono rispetto alle precedenti uscite, ma era fisiologico) e Infest the Rats' Nest, in cui danno libero sfogo alla loro vena heavy e thrash metal.

    Sono una bella band di squinternati! Penso che il top lo abbiano raggiunto con Nonagon Infinity e il successivo Flying Microtonal Banana. Poi hanno tirato fuori troppa roba per stargli dietro... In Infest the Rats' Nest mi sa che la band non è tutta al completo.
  6. .
    Mancava ;)

    Motörhead – Overkill

    Spero la formattazione sia corretta, non mi ricordavo come si faceva!
  7. .

    Motörhead – Overkill (1979)


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    1. Overkill - 5:12
    2. Stay Clean - 2:40
    3. (I Won't) Pay Your Price - 2:56
    4. I'll Be Your Sister - 2:51
    5. Capricorn - 4:06
    6. No Class - 2:39
    7. Damage Case - 2:59 (Kilmister, Taylor, Clarke, Farren)
    8. Tear Ya Down - 2:39
    9. Metropolis - 3:34
    10. Limb from Limb - 4:54



    Io e Lemmy siamo diventati definitivamente amici una mattina di Natale del 2011, quando, a causa di un virus un influenzale, fui costretto a saltare il pranzo di Natale dai suoceri (lo so che per molti la cosa potrebbe esser stata una salvezza, ma vomitare tutta la cena della Vigilia di Natale non fu per niente una passeggiata). Babbo Natale mi portò un fantastico lettore mp3 della Creative e il collaudo fu fatto con questo disco, per poi farmi compagnia tutto il giorno.

    Chi come me che, a causa di ragioni prettamente anagrafiche, si è perso qualcosa per strada e ha la necessità di creare una sorta di cronologia delle mutazioni, attribuisce ai Motörhead l’importanza di essere stato un punto di snodo tra la musica hard rock / rhythm and blues degli anni ‘70 e la scena metal inglese da una parte e la scena heavy metal americana.

    In realtà si tratta solo di rock ‘n’ roll sparato a velocità supersonica. Un hard and heavy a dei decibel mai sentiti prima – soprattutto dal vivo, in studio la cosa non era replicabile per gli strumenti dell’epoca – dove il girovago Lemmy riuscì a prendere spunto qua e là – la psichedelia degli Hawkwind, il punk, l’hard rock di matrice anni ‘70, la nascente scena metal inglese – rinchiudendo il tutto in tempi dimezzati – la durata delle canzoni e in media sui 3 minuti e mezzo – ma raddoppiando la velocità d’esecuzione.

    Una band in stato di grazia nella sua formazione originale, con Phil “Philty”Taylor alla batteria, Eddie “Fast” Clarke alla chitarra e poi lui, Ian “Lemmy” Kilmister al basso. Padre e fondatore della band, hombre vertical del rock, una sigaretta in mano, una bottiglia di whisky nell’altra, una voce da gargarismi con i vetri pronta a tuonare il famoso verbo born to lose, live to win. Il meno poser tra tutti i poser – guardatevi qualche video recente di lui insieme ad altre band e capirete cosa voglio dire – un carisma da vendere ma anche una gentilizza fuori dal comune per il mondo della musica, non negandosi mai ad una collaborazione e incassando anche meno del dovuto, non solo nel senso economico, hanno creato il mito Lemmy, persona da prendere tutta d’un sorso, sia nei pregi che nei – tanti – vizi.

    Sta di fatto che il sound Motörhead è racchiuso nei cinque minuti della title track Overkill: Taylor alla batteria è un rullo compressore, Clarke genera riff a velocità supersonica e Lemmy imbraccia la sua mitragliatrice a forma di Rickenbacker. E’ la canzone che dura più di tutte perchè dopo la tirata micidiale dei primi tre minuti c’è il famoso overkill (On your feet you feel the beat / it goes straight to your spine) e si riparte sulle montagne russe tra la doppia cassa della batteria – quasi una novità per l’epoca – e l’assolo affilato come una lama di Clarke.

    Il canovaccio non cambia né con Stay Clean né in (I Won’t) Pay Your Price mentre I’ll Be Your Sister è letteralmente un bagno di fuoco appiccato dallo straordinario assolo inziale di Lemmy – accusato di essere una canzone sessista, Lemmy rivelò che avrebbe voluto che la canzone fosse incisa da Tina Tuner (!). La successiva Capricorn – così come Metropolis – sono i due pezzi più vicino all’hard rock e alla psichedelia di una decade addietro di tutto il disco mentre è nel power trio No Class / Damage Case / Tear Ya Down che la band torna ad essere il rullo compressore d’apertura. Chiude Limb from Limb, un iniziale hard blues che alza i giri del motore fino a terminare con il solito ritmo indiavolato con cui si è aperto l’album.

    Da non tralasciare anche altre due canzoni come Too Late Too Late e Like A Nightmare, uscite rispettivamente come b-side dei singoli Overkill e No Class e inserite nell’edizione del disco del 1996.

    L’album fu registrato in una notte, una cosa piuttosto comune per i Motörhead visto che gli studi costavano molto e i tre non avevano un soldo. Ai Roundhouse Studios di Londra come produttore c’era Jimmy Miller, famoso per aver prodotto i miglior dischi dei Rolling Stones (Beggars Banquet, Sticky Fingers, ecc) e diverse canzoni – Damage Case, No Class, I Won’t Pay Your Price – erano già state suonate dal vivo anni prima mentre Capricorn fu partorita direttamente quella sera mentre Metropolis fu scritta da Lemmy in 5 minuti qualche giorno prima dopo aver visto l’omonimo film.

    Dei primi 4 album dei Motörhead, Motörhead, Overkill, Bomber e Ace Of Spades – usciti a cavallo tra il ‘77 e il ‘80 – viene spesso preso come summa artistica l’ultimo. Personalmente vedo, tralasciando il valido ma acerbo Motörhead, Overkill come l’inizio della “storia Motörhead”. Gli altri sono il proseguimento di idee già tracciate in precedenza, che vedevano Lemmy e soci cavalcare il treno che loro stessi avevano messo in moto. Purtroppo vizi, vezzi, tour massacranti, cambi di formazioni e un rapporto con le case discografiche non proprio idilliaco non permetteranno ai Motörhead di raggiungere più questi livelli, salvo rialzare la testa con l’ultima formazione (Aftershock e Bad Magic).

    Il disco non ha nessuna flessione compositiva né un vuoto e inanella una serie di canzoni imprescindibili per tutto quella che sarà la scena heavy nelle sue declinazioni in thrash e speed – vedi Metallica, i loro primi debitori – entrando di diritto nella cerchia ristretta dei capolavori della musica.

    Line Up:

    Phil Taylor - batteria
    Eddie Clarke - chitarra
    Lemmy Kilmister - basso, voce

    Edited by Sciarpi - 10/5/2020, 07:00
  8. .
    Mi fa molto piacere che le mie schede siano sempre presenti e che non diano problemi 😂
  9. .
    CITAZIONE (Sgabrioz @ 19/4/2020, 13:41) 
    CITAZIONE (Sciarpi @ 19/4/2020, 06:59) 
    Oh bravi bimbi! :corna:

    Sciarpone!

    La sezione elettronica ti reclama!

    Ho letto un po' di vostri commenti al restyling del forum e avete fatto un buon lavoro.

    La prima volta che son entrato qua dentro credo fosse la fine del 2007 (quindi fatevi 2 conti di quanto tempo sia passato, sopratutto per chi vi critica) e non credo che l'intento del forum fosse di natura "enciclopedica", ma così, ognuno diceva la sua, poi ci sono stati gli anni d'oro dove in tanti (compreso me) scrivevano di musica, tra dischi vecchi e nuovi. Siamo addirittura arrivati a fare la compilation di musica underground italiana! Ora sarebbe una cosa impossibile solo arrivare all'idea. Ma c'era anche altro, come dimenticarsi de "Il Grande Topic del Pallone", i topic su cosa accadeva nel mondo, sull'attualità, su piccole questioni personali e così via. Per non parlare di quel think tank di caratura internazionale che era il topic "Chi ti faresti volentieri".

    Fare un progetto di ampio respiro è francamente difficile e poi per chi? Per noi? Allora va bene quello che c'è. Si fa un cambio degli armadi e via, senza troppi fronzoli. Difficilmente senza questa quarantena lo avreste fatto.

    Citando Sickman e MrBungle

    CITAZIONE
    Ovviamente ad una persona che si affaccia oggi per la prima volta in un mondo del genere tutto ciò appare paleolitico, ma d'altronde, chi se ne frega?

    CITAZIONE
    Mi ricordo benissimo una frase di Andrea (Alphadj) che dopo l'inaugurazione della nuova grafica scrisse: se arrivassimo ad avere 10-15 utenti che scrivono con una certa frequenza sarei più che soddisfatto. E io gli risposi di essere d'accordissimo.
    Pensare di fare un forum che diventi un polo attrattivo da qui al futuro è pura utopia e per questo non riesco proprio a capire le critiche precedenti.

    non posso che esser d'accordo.

    Personalmente qua dentro ho scritto tanto e letto ancora di più. Vi ho sempre seguito, spesso non ero loggato ma ad oggi il tempo è quello che è. Se sono maturato nell'approccio alla musica, sono peggiorato nello scrivere, diventando terribilmente lento! Aimè, il mio tempo libero ora è poco (ho una figlia) quindi spesso la sera mi manca lo sprint per scrivere qualcosa e devo ottimizzare. Rischio di passare una serata su una frase. Prima non era così, di tempo ne avevo quanto volevo.

    Resta il fatto che qua dentro ho imparato cose importanti e mi son sempre divertito tantissimo. Se avrò un po' di tempo (con una figlia e lavorando la quarantena è pure peggio) darò una sistemata alle schede aperte da me che ancora non avete modificato.

    E magari scriverò un po' di più.
  10. .
    Oh bravi bimbi! :corna:
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    CITAZIONE (MrBungle82 @ 6/9/2019, 21:31)
    I miei due spicci, una pseudo recensione:


    Fear Inoculum è un tema scolastico lungo e prolisso, scritto in bella grafia e con qualche frase qui e là molto ispirata.
    È una serie tv con uno sviluppo narrativo troppo lungo e ripetitivo, ma con delle mezze puntate ben girate e con scenografia molto bella.
    È una scatola di lego con tanti mattoncini bellissimi e di materiale pregiatissimo, ma dai quali non si riesce a tirar fuor modelli particolarmente fighi.

    Credo che questo sia il difetto principale del disco e sia anche stata la loro principale difficoltà, quella di "chiudere le canzoni".
    Di motivi ne ho letti tanti, dalle lunghe jam senza Maynard, a dischi finiti buttatti anni fa, a scazzi vari personali.
    E scrivo perchè ancora sto rammaricando su Descending. I primi 7 minuti sono, a mio avviso, tra testo e sezione ritmica, l'apice emozionale del disco, poi Maynard sparisce e arriva Adam che spara 3/4 riff per 8 minuti! Ne bastava uno che tenesse o alta la tensione o che alleggerisse il testo. Invece no, diamoci al rifforama! La stessa cosa c'è (anche se in parte minore) nella title track e in Invincible mentre forse in 7empest, i riff di Jones ci possono stare ma perchè è la parte vocale che ne è al servizio e non viceversa.
    Spesso Adam, Danny e Justin sembrano fidanzatini al telefono, "dai smetti di suonare tu, no tu, dai prima tu". E si va avanti per minuti.

    In generale questo disco non mi dispiace, nonostante sia lungo 1 ora e 26 minuti scorre bene perchè le canzoni sono si lughe ma in definitiva sono solo 5, ha i suoi bei momenti: la prima parte di Fear Inoculum, il climax di Pneuma, la cavalcata finale di Invincible, la già citata Descending e anche 7empest che ha i suoi perchè.

    Oltre a quanto detto prima ha dei suoni e delle soluzione già sentiti e risentite, con un autocitazioni vicino "alla auto denuncia per plagio" come ho letto in rete. Non faccio l'elenco ma ce ne sono a iosa e il dire "serve per ricollegarsi a..." non vale altrimenti ci tocca rivalutare tante discografie da vergognarsi. La necessità di fare una canzone come Culling Voices lo capirò quando sarò grande o forse morirò prima di capirlo. Per il resto concordo con voi sul fatto dell'età, della fiammella che si spenge ecc...

    Chiudo dicendo che è anche un disco secondo me pensato anche per i live, che saranno come al solito incendiari, pieno di video, luci e dove i 3 faranno faville mentre Maynard canterà il giusto per preservarsi un po'.

    P.S. Salve ragazzi, vi leggo e vi voglio sempre bene.

    Edited by Sciarpi - 9/9/2019, 23:11
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    Per la cronaca, io son quello sulla sinistra...

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    Io faccio come mi pare, metto 20 dischi, in fondo tiro le conclusioni. :yeah:

    1. Bohren & Der Club Of Gore - Piano Night


    Prima piazza va a Piano Night, nuovo disco dei Bohren & Der Club Of Gore. Fino ad ora non li conoscevo ma ho scoperto che sono attivi fin dal 1994 e al tempo facevano musica prettamente doom metal. Negli anni a seguire hanno preso una strada artistica diversa che li ha portati ad essere in territorio noir jazz. Piano Night è uno di quei dischi che ascolti e poi dici “a ma siamo già alla settima canzone?”. E’ un lungo flusso di sassofono, un pianoforte estremamente decadente, piccoli squarci di vibrafono in un mare di nebbia, delusione e solitudine. Togli ai Morphine la componente rock e due terzi dei bpm, ai Dale Cooper Quartet & Dictaphones la parte più impro e avanguardista. Disco non per tutte le stagioni - che per malinconia mi ha ricordato il Cause And Effect di Mario Massa e Saffronkeira dello scorso anno - ma è impossibile non struggersi nella lunghe suite Ganz Leise Kommt Die Nacht e Verloren.

    2. Kanding Ray – Solen Arc

    Non mastico techno a colazione, anzi cerco sempre di guardarmene bene ma le eccezioni spesso fanno bene alle regole. Una è Solen Arc, il nuovo disco di Kangding Ray, alias David Letellier. Solens Arc è un caleidoscopio di techno sporca, muscolare e bella incazzata. Geometrie ruvide, atmosfere notturne e incalzanti (Evento, Black Empire), sporie di glitch, petali di dub e idm. Una talpa a scavare un tunnel sotterraneo, che si concede pochi momenti di pausa in un gran bel disco per un autore già attivo da quasi una decade.

    3. Alex Banks – Illuminate

    Artista di vent’anni alla sua prima opera, propone breakbeat esplosivi e melodie suadenti impreziosite dalla voce angelica di Elizabeth Bernholz.

    4. Illuha – Akari

    Il duo nippo-tedesco (Tomoyoshi Date, Corey Fuller) con Akari (uscito per la 12k) raggiunge la piena maturità.
    Ambient puro, di una morbidezza e di una grazia fuori dal comune, un perfetto equilibrio tra strumenti acustici ed elettronica. Un album struggente e romantico, che da il meglio nella traccia d’apertura Diagrams of the Physical Interpretation of Resonance e nelle ultime due, Structures Based On The Plasticity Of Sphere Surface Tension e Relative Hyperbolas of Amplified and Decaying Waveforms, rispettivamente un pianoforte su un ruscello di montagna ed un oceano increspato da onde di droni e synth.

    5. Kassem Mosse - Workshop 19

    Dopo una manciata di singoli e l’Ep Workshop 12" del 2011 debutta su lunga durata Kassem Mosse (aka Gunnar Wendel). Producer abile e sapiente nel creare un suono variegato e intriso di sensuale e raffinata musica elettronica. Niente nomi ai brani in questo Workshop 19, solo un mero ordine letterale, dove la sezione A e B sono imperversate da ipnotizzanti groove machine su onde di sintetizzatori, mentre nella parte da C a D si ha un ambient più oscuro e dilatato.

    6. Saåad – Deep/Float

    Settimo disco per Saåad, il duo formato da Romain Barbot & Gregory Buffier, ad un anno dal convincente Orb & Channels. Questo Deep/Float è stato registrato tra novembre 2013 e gennaio 2014 in una valle ai piedi delle Alpi, utilizzando tre coni riverberanti giganti come cassa di risonanza. Non ci credevo nemmeno io, fino a quando (per sbaglio, credevo di stare ascoltare il disco di qualche rigo sopra) non ho sentito After Love. Maestosa, imponente, evocativa. Il canovaccio del disco è pressoché questo, impossibile scegliere una canzone per un altra.

    7. Pjusk - Solstov

    Dopo la collaborazione con Sleep Orchestra in Drowning In The Sky, continua il silenzio gelido e le atmosfere claustrofobiche del duo Rune Sagevik e Jostein Dahl Gjelsvik. Disco della maturità artistica, un delicato intreccio di sospiri nordici, field recording, drone, strumenti acustici. In “Gløtt”, ambientata idealmente all'interno di una grotta, fanno capolino i rintocchi glitch del nostro Saffronkeira e la tromba isolata del connazionale Kåre Nymark Jr. ricorda quella di Mario Massa in Cause ed Effect (sempre con Saffronkeira)

    8. Have A Nice Life - The Unnatural World

    Guarda che si rivede. L'esordio fu alquanto interessante, correva l'anno 2008 e il duo statunitense formato dai Dan Barret e Tim Macuga dette alle stampa il doppio concept Deathconsciousness, una personale rielaborazione - durata 5 anni - di gotico, post-punk, shoegaze, drone-music, suoni ancestrali, messe liturgiche, post industrial, post rock e post tutto quello che volete. Si va dai My Bloody Valentine, ai Syster Of Mercy fino ai Nine Inch Nails. Un disco che dice tutto già nella copertina, con l'assassinio di Marat. Purtroppo non sono mai riuscito a comprarlo, fu una edizione limitata, credo solo in 250.
    Il secondo capitolo, riprenda da un lato la tristezza e la malinconia del lavoro precedente ma dall'altro risulta un disco più compatto, più saturo di suoni, suona leggermente più rock. Niente effetto sorpresa ma c'è solo da togliersi il cappello.

    9. Francis Harris - Minutes Of Sleep

    Il sempre valido mix tra house, lounge e jazz in Minutes Of Sleep di Francis Harris, a confermare il buon Leland del 2012.

    10. Be Forest – Earthbeat

    Dopo 3 anni dal valido Cold, il trio formato da Erica Terenzi alla voce e alla batteria, Costanza Delle Rose alla voce e al basso, Nicola Lampredi alla chitarra - con la collaborazione di Lorenzo Badioli per i synth e effetti - da alle stampe Earthbeat. Atmosfere sognati, piccoli bozzetti di acquerelli, gioiellini pop, tra Cocteau Twins, My Bloodie Valentine, tra il basso dei Cure e lo shoegaze dei Blondie Redhead (in Airway ad esempio), fino ad arrivare agli attuali Daughter, confronto dai quali non escono sicuramente spacciati. Nel vuoto pneumatico della musica italiana trovare album del genere fa sempre tirare un sospiro di sollievo.

    11. Jamie Saft, Steve Swallow, Bobby Previte - The New Standard

    Il polistrumentista Jamie Saft al pianoforte, Bobby Previte alle pelli e Steve Swallow al basso. Nessuno ha scritto niente, si sono trovati e in tre ore hanno registrato questo disco. Come spesso ripeto, il jazz lo lascio per i dopo 50 anni, però certe cose non devono sfuggire. Un disco meraviglioso.

    12. Federico Albanese - The Houseboat And The Moon

    Il bravo Federico (uscito per Denovali) propone 13 struggenti brani per pianoforte di sua composizione, con un occhio a Satie e alle colonne sonore di Tiersen e Desplat.

    13. Banks – Goddess

    Anche quest’anno in classifica c’è un “peccato capitale”. La scelta era tra Lana del Ray con Ultraviolence, FKA Twigs con LP1 è lei, Jillian Banks, nata a Los Angeles, 1988. La seconda uscita di Lana non l’ho ancora messa bene a fuoco (la ripetizione a volte stanca), mentre FKA Twigs a me non dice niente, troppo sofisticata per questo genere. Quindi vince Goddess. Anche se in definitiva, contiene qualcosa sia della prima (il modo di cantare) che della seconda (beat dalle tonalità spesso oscure, dialogo tra elettronica, r&b). E il segreto del disco è questo, con un po’ di collaboratori di lusso (Sohn, Shlohmo, Al Shux), i piedi su qualche staffa e più, una tonnellata di singoli, hype a nastro e il gioco è fatto. In conclusione valgono tutti i discorsi che feci due anni fa per Lana del Rey...

    14. Boozoo Bajou – 4


    Band dal nome curioso, Boozoo Bajou, in realtà sono due musicisti tedeschi, Peter Heider e Florian Seyberth. 4 è il loro nuovo album per un combo già attivo da diverso tempo che anche questa volta raccoglie diversi musicisti come Frank Zeidler (chitarra), Stefan Pötzsch (violino), Max Loderbauer (synth) e Frank Frejtag (duduk),
    Techno, ambient–music e dub, stralci di jazz e neoclassica elaborati da strumentazioni vintage rendono questo disco un prodotto ricco e carico di suggestioni.

    15. Fennesz – Bécs

    Dopo sei anni da Black Sea - anche se nel mentre non sono mancate numerose collaborazione con Sakamoto e nel trio insieme a O'Rourke e Rehberg (Fenn ‘O Berg) - torna Christian Fennesz con Bècs. A 52 anni, il musicista austriaco ha il merito di non cadere mai nell’astrattismo fine a se stesso ma di creare sempre delle trame dalla imponente vena melodica. Sia che si tratta un percorso ad ostacoli rumoristici heckeriani (The Liar, Pallas Athene ), l’aria crepuscolare satura di fraseggi di chitarra in un poderoso crescendo emotivo (Liminality, Bècs) o il romanticismo elettroacustico (Paroles).

    16. Tinariwen – Emmaar

    I miei amici arabi. Lontano dalla vivacità occidentale di Tassili - per non parlare di Chatma dei Tamikrest! - Emmaar riprende la coralità di Imidiwan: Companions, con un paio di canzoni sugli scudi come come Tahalamont, Arhegh Danagh, Imidiwan Ahi Sigdim. Pur avendo qualche passaggio a vuoto e non introducendo sostanziali novità nel loro sound - anche se le quattro chitarre che fraseggiano tra loro è sempre un gran sentire - i Tinariwen mantengono il merito di esser sempre se stessi e di proporre la loro musica, nonostante i tentativi di alcuni, mettiamola così, di salire sul carro dei vincitori.

    17. Pontiak – Innocence

    Li avevo apprezzati tantissimo al tempo di Maker, il loro disco di esordio. Poi erano un po' calati, complice anche l'ultimo disco Echo Ono, prodotto pure male. Di primo acchito anche questo Innocence non mi aveva colpito più di tanto ma piano piano mi sono ricreduto. Pur proponendo già una formula che non brilla di originalità, in poco più di mezz'ora i tre fratelli Carney riescano comunque a mettere a verbale qual'è il sound Pontiak. Il trio Innocence Lack / Lustre Rush / Ghosts è una partenza con il botto, tra Stoogies, Kyuss e Queens of The Stone Age. Tre bombe consecutive, tre ballate consecutive, It’s The Greatest, Noble Heads, Wildfires, una via dimezzo tra Kinks, Animals e i Pink Flyod più folk e meno psichedelici. Ritorna il martello e l'incudine in Surrounded By Diamonds, ma è nella kyussianissima Beings Of The Rarest che si ha il pezzo più d'impatto del disco. Chiudono Shining, con la sezione ritmica presa pari pari da Manic Depression di Jimi Hendrix, l'altra ballata Darkness Is Coming e un altro pezzo "tutto d'un pezzo" come We’ve Got It Wrong. Adeguatamente paraculo ma in ogni caso è un buon disco che mi ha permesso di fare pace con questi ragazzi.

    18. Rival Sons - Great Western Valkyrie

    Nuovo disco per la band di Jay Buchanan, che conferma di fatto le cose buone espresse fino ad ora dalla band statunitense, il primo disco dopo l’abbandono del bassista Robin Everheart.
    Ha il tiro di Pressure And Time e la delicatezza di Head Down. Si parte forte con il continuo di Keep On Swinging, Elettric Man e l’aerosmittiana Good Luck e il pezzo a la Black Angels, Secret. La debole Play The Fool fa da anticamera alla dorsiana Good Things per poi arrivare alla audiosleviana Open My Eyes. I paragoni sono finiti, il disco svolta. Richie And Poor e Belle Starr sono un concentrato di rock seventis con gocce di psichedelia qua e la, sorrette magistralmente dalla chitarra di Scott Holiday. Where I’ve Been riprende pari pari le orme di Jordan di Head Down.
    Il top si ha con la struggente Destination On Course, con Buchanan a fare un saluto a Freddy Mercury e l’abrasiva chitarra di Holiday sugli scudi.

    19. Interpol - El Pintor

    Persi al tempo del disco omonimo, questo El Pintor me li ha riportati all'attenzione ed è un disco che ci riporta una band (che ho sempre apprezzato) in un buona stato di forma, con un Banks ispiratissimo, sia di voce sia a livello di songwriting. Un disco che si lascia ascoltare, con pezzi validi come My Desire, Everything Is Wrong, Breaker 1, Twice Is Hard. Ben tornati.

    20. Tensnake – Glow


    Conclude Tensnake - alias Marco Niemerski classe ‘75 di Amburgo - produttore di lungo corso al debutto con Glow. Imprinting puramente radiofonico per un album troppo lungo e dispersivo ma che vince a mani basse su pezzi come Enough To Keep - che sancisce definitivamente l’arrivo della bella stagione, con Nile Rodgers e il suo inconfondibile riff alla chitarra e la vocalist Flora - Holla e No Relief. Il mio lato oscuro di discotecaro ogni tanto viene fuori.

    Ecco qua. A grandi linee l'ordine è indicativo, ho messo in cima i nomi nuovi, lasciando i big nelle retrovie. Di nomi interessanti ce ne sono anche altri (più o meno conosciuti), ad esempio FKA twigs, Marissa Nadler, Planningotorock, Paloma Faith, Kyoka tra le donne oppure Dirty Beaches, Loscil, SOHN, Christian Loffler e Joe Bonamassa tra gli uomini.

    Ci sono due dischi che non ho messo, e sono AURORA di Ben Frost e Faith In Strangers di Andy Stott. Sono entrambi in bilico, a volte penso bene e a volte male. Per il disco di Frost forse sono io che mi aspettavo qualcosa di più gelido alla By The Troath e non sono riuscito ancora a sfondare questo nuovo muro saturo di suoni. Per Andy mi sembra che si sia un po' troppo ammorbidito risultando un po' piatto, specialmente nelle parte centrale. Ma vedremo, sono dischi che ho riascoltato solo nell'ultimo periodo.

    Qualcosa di buono l'abbiamo in questo 2014 l'abbiamo tirato fuori lo stesso però per il sottoscritto le annate 2012 e 2013 sono state migliori. Nel complesso c'è da dire che quest'anno il mio tempo libero è stato tendente allo zero, visto che a fine giugno ho comprato casa è sono dovuto stare dietro ai lavori prima e al trasloco poi, ho tempo per riflettere solo ora. Ma fortunatamente ho l'abbonamento a Spotify...

    My Top 2014 on Spotify
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    Altra portatrice di inchiostro...

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    Il buon vecchio zio Sciarpi entra a gamba tesa nell'argomento.

    Premessa. Avevo scaricato Spotify sul pc del lavoro a primavera e lo usavo con le radio (ripetitive fino alla noia) fino a quando non venne introdotta la limitazione agli ascolti per account free e fino a quando il pc ha retto. Dopo niente, dimentica Spotify.
    Poi, non mi ricordo chi qua dentro, ha postato la propria lista di canzoni preferite del 2013 come playlist su Spotify e mi è ritornato a mente. L'ho installato sul mio pc di casa e c'erano tutti i dischi che avevo indicato nella top 20! Alla fine ho fatto un abbonamento Premium, a 9,90 euro il mese, per un anno. Ora vi dico il perchè.

    Come ho già scritto nei commenti alla top 20, ho un metodo di ricerca della musica lungo e macchinoso. Mi "procuro" i dischi, li sistemo, li metto nell'archivio, li ascolto poi a volte vanno bene e vanno male, ma ciò mi costa tanto di quel tempo che non sempre vale candela. In più, cosa non meno importante, sono sempre costretto ad ascoltarla al pc di casa, il che mi crea un tantino d'ansia (visto che c'è sempre qualcuno che mi rompe i cosiddetti). Mi serviva qualcosa che mi potesse permettere di avere sempre con me la musica che ascolto o che ho intenzione di ascoltare, qualcosa che possa riempire il percorso casa lavoro oppure quei 10 minuti sul divano. Qualcosa oltre al pc. Coincidenza ha voluto che il mio cellulare aziendale fosse una merda e per di più guasto ma siccome l'operatore non poteva cambiarmelo, ho detto un bel "crepi l'avarizia" e mi sono comprato un Galaxy Note 3. Non solo, a lavorare ho cambiato il pc e anche qui ho installato Spotify. In sostanza, mi basta una connessione ad internet (ma non è detto, perchè gli account Premium possono ascoltare musica anche offline) e son sempre nel mio brodo. Sono anche un fan dei lettori mp3, ma li la musica se non ce la metti da sola non ci va.
    Chiariamoci. Non è cambiato niente. Ciò che mi piace compro e comprerò finché il mio conto in banca me lo permetterà, il mio impianto hi-fi è fondamentale però io spero che con tutti questi aggeggi possa arrivare alla musica che preferisco in un tempo più rapido. La cerco su Spotify (ma lo stesso discorso vale anche per Soundcloud) faccio una prima scrematura, la posso riascoltare in qualsiasi momento, poi se mi piace me la procuro, comprandola o no. La qualità, specialmente su dispositivi mobili, non è il massimo, specialmente se non hai un DAC - il mio caso - e colleghi jack to jack l'amplificatore con lo smartphone.

    Detto questo, è un sistema che sto sperimentando e che spero mi porti la solita musica che ho sempre ascoltato in questi anni con un po' meno di fatica. Un ascolto più mirato, diciamo così. Credo che, per dirla come dite voi, da audiofilo professionista, abbia ormai l'orecchio per dosare Spotify e non farlo diventare una radio random o una collezione di singoli.
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